‘La Russia di Putin ha lanciato un guanto di sfida verso l’Occidente, e verso l’intero sistema internazionale di cui l’Occidente è paladino’: sembra essere una delle poche affermazioni sulle quali, in un dibattito pubblico sempre più frammentato e lacerato che sconfina spesso nella polarizzazione aperta, è possibile registrare consensi pressoché unanimi. In realtà ci si trova d’accordo sull’affermazione generale, ovvero sulla circostanza che trattare con la Russia di questi tempi è un esercizio a dir poco ‘challenging’. Perché poi, quando si tratta di scendere nei dettagli di cosa questa sfida rappresenti in concreto, differenze e divergenze affiorano inesorabili. Persino nella rappresentazione di coloro che caratterizzano la Russia putiniana con le tinte più fosche, di vera e propria minaccia, i connotati effettivi di questa minaccia sono destinati a cambiare a seconda di interlocutore e circostanze contingenti, e forse della stessa crisi.
In questi ultimo scorcio di decennio, infatti, la Russia è stata accusata di attentare, nell’ordine:
alle fondamenta dell’architettura di sicurezza dell’intero continente euroasiatico: per aver violato il principio d’intangibilità delle frontiere attraverso l’annessione illegittima della Crimea, e per tenere successivamente l’Ucraina sotto scacco mediante la destabilizzazione ‘ibrida’ condotta dalle milizie separatiste nell’est del Paese);
alla tenuta degli accordi internazionali di non–proliferazione: per essere venuta meno, con l’annessione della Crimea, al memorandum di Budapest siglato nel 1994 mediante il quale l’Ucraina aderiva al Trattato di Non Proliferazione, rinunciando ad utilizzare l’arsenale nucleare lasciatole in dote dall’Unione Sovietica ricevendo in cambio l’assicurazione da Mosca, di cui USA e Regno Unito si rendevano garanti, che la Russia avrebbe rispettato l’integrità delle frontiere ucraine, e al tempo stesso rinunciato a sua volta all’uso (o alla minaccia dell’uso) della forza nei riguardi dell’Ucraina;
alla stabilità ed alla sicurezza dell’Europa stessa, messa a repentaglio dal rischio che manovre destabilizzanti, di tipo ibrido (e quindi rinnegabili fino a quando non siano riuscite a produrre una situazione di fait accompli) analoghe a quelle messe in atto con successo in Crimea, possano essere riprodotte altrove, segnatamente nei Paesi baltici;
alla sicurezza della navigazione aerea, profondamente scossa a seguito del tragico incidente dell’aereo MH17 le cui responsabilità vanno ascritte seppure indirettamente al sostegno offerto da Mosca ai separatisti filorussi presenti nell’Ucraina orientale, i quali porterebbero, secondo le inchieste internazionali più attendibili, la responsabilità principale dell’accaduto;
alla capacità di gestione da parte europea dei flussi migratori, che la Russia avrebbe fomentato la repentina impennata negli spostamenti di rifugiati di provenienza siriana (la cosiddetta ‘weaponization of refugees’: una definizione di per sé oltraggiosa del dramma umano degli individui coinvolti), contribuendo così in maniera determinante ad una delle emergenze che ha messo a dura prova la capacità di tenuta di importanti Paesi europei, e ell’Unione Europea nel suo complesso;
alla stabilità dell’area medio-orientale, in combutta con una atipica multinazionale autocratica (che metterebbe assieme Russia, Iran, Egitto e Turchia), attraverso l’intervento in Siria prima, e poi le crescenti attenzioni rivolte in direzione della Libia;
alla libertà d’informazione, attraverso un’opera sistematica e capillare di disinformazione, di diffusione di notizie false o tendenziose che punta a delegittimare o comunque a svilire i media tradizionali e quello che essi rappresentano nelle democrazie occidentali;
alla sopravvivenza dell’Unione Europea nel suo complesso, attraverso il sostegno diretto e indiretto, morale e finanziario a partiti e movimenti demagogici, euro-scettici o euro-fobici variamente assortiti.
Un crescendo putiniano di tutto rispetto, in cui la capacità manovriera, ai limiti del luciferino, del leader russo si dà la mano con le ossessioni, ai limiti del paranoico (difficile qualificare altrimenti le congetture che vedono la mano di Putin all’origine del passato esodo di massa dai campi profughi della Turchia, oppure le ipotesi che addebitano alla Russia le fibrillazioni medio-orientali che, a dire il vero, gli attori regionali mettono molto del loro a produrre da sé, senza dover ricorrere a stimoli esterni), dei suoi detrattori.
Con il rischio che le isterie di questi ultimi inducano a sottovalutare la serietà della sfida mossa dal primo. Una sfida la cui portata, un po’ come la personalità sfuggente del suo autore, si è trasformata col passare del tempo, al punto da avere registrato da ultimo un preoccupante salto di qualità.
Infatti nelle azioni che avevano portato all’invasione ‘asimmetrica’ prima, e alla annessione della Crimea poi, con annesso conflitto a fiamma bassa in Ucraina orientale, era possibile cogliere un tratto difensivo, di reazione istintiva e brutale (in linea con le secolari tradizioni del Cremlino) all’asserito tentativo di matrice occidentale di esportare la pratica del regime change alle soglie della Piazza Rossa, che chiamava evidentemente in causa la sopravvivenza del regime russo, e quella fisica del suo attuale titolare. Ma il movente della legittima difesa, per plausibile o meno che sia nel caso dell’Ucraina, non è sufficiente a spiegare le manovre in atto, di interferenza attiva nei processi elettorali delle principali democrazie occidentali, certificate da valutazioni convergenti (caso abbastanza infrequente) delle intelligence occidentali.
A cosa puntano queste manovre russe? A favorire l’ascesa al potere dei populisti (in una specie di versione aggiornata per il Ventunesimo Secolo del manifesto della classe operaia del 1848, a riprova dell’assioma marxiano della storia che ripete in farsa)? A ripagare l’Occidente della stessa moneta, seminatrice di anarchia, che a detta dei russi i neo-cons occidentali erano intenti a propagare su scala regionale e, chissà, planetaria? Ovvero a diffondere una cortina d’imprevedibilità e d’incertezza sul corso futuro non solo delle reazioni russe, ma delle stesse azioni occidentali, per confondere le idee dei propri avversari e in questo modo tenere quanto più possibile distante da sé il confronto strategico tra le democrazie liberali e la riedizione contemporanea del dispotismo orientale?
Gl’interrogativi abbondano; la risposta definitiva non la detiene nessuno; e, probabilmente, nessuno la deterrà mai. Per l’obiettiva difficoltà di decifrare moventi e fini della leadership del Cremlino; e per l’interesse di quest’ultima, oltre che per deformazione professionale da ex-agente del KGB, a tenere le carte coperte, a preferire l’opacità alla trasparenza, l’ambiguità alla chiarezza.
Le reazioni, a volte spropositate, a volte persino isteriche, che caratterizzano il dibattito in corso negli Stati Uniti sui contatti con l’Ambasciatore russo a Washington, che dopo il (ormai ex-) Consigliere per la Sicurezza Nazionale hanno messo in serio imbarazzo l’Attorney General – spingendo un giornale serio e non sospettabile di simpatie putiniane o tantomeno trumpiane come il New Yorker a interrogarsi sui motivi per cui un atto tutto sommato fisiologico come intrattenere contatti con il rappresentante diplomatico di un importante Paese straniero venga considerato alla stregue di alto tradimento – sono figlie di questo clima. Frutto paradossale (e non è dato sapere quanto desiderato) del successo della strategia del Presidente Putin: un ‘catastrophic success’, verrebbe fatto di chiosare, pensando a come di fatto avere rapporti con tutto ciò che sia riconducibile a Mosca viene in queste circostanze percepito come altamente radioattivo. Tenendo presente che un intellettuale europeo brillante e acuto come Ivan Krastev aveva, in tempi non sospetti, etichettato la strategia putiniana come ‘isolazionismo aggressivo’. Verrebbe solo da chiedersi se la reazione occidentale (americana, e non solo) non corra il rischio di sconfinare in quegli stessi eccessi.