La vicenda di Fabo non è solo la storia tragica di un suicidio ma dice molte cose del nostro modo di vivere che forse non vogliamo sentirci dire. Fabo ha abbandonato con coraggio una vita non più degna di essere vissuta. Ne aveva tutto il diritto. Nessuno, né chiesa, né Stato, né morale possono pretendere autorità sul nostro corpo. L’integrità della persona che la Costituzione ci garantisce significa anche questo: dobbiamo essere lasciati liberi di fare della nostra vita quello che vogliamo, anche di togliercela. Ma come molti hanno scritto in questi giorni, qui lo Stato non c’entra, non spetta allo Stato occuparsi di un fatto così privato e personale. Altra cosa è la malattia terminale dove il paziente non può decidere da solo se porre fine ai propri giorni. In questo campo sì è necessaria una legge che chiarisca diritti e responsabilità. E l’Italia resta l’unico paese dell’Unione europea a non averne una. Eppure Fabo nella sua uscita dalla vita ha esplicitamente accusato lo Stato di averlo abbandonato, di non essersi occupato di lui. E qui sta l’inizio di un filo di pensiero che forse disturba.
Chi era Fabo? Un bell’uomo, giovane, prestante, un disc jockey abituato a mettersi in mostra e a piacere, una delle tante figure prodotte dal moderno mondo dell’apparenza, dove tutto è passeggero e effimero. Come si è ridotto Fabo nella sua disgraziata condizione? Con un incidente automobilistico, guidando senza cinture di sicurezza. Un comportamento di sfida, di ribellione e anche una velleità di onnipotenza, tipico della nostra civiltà della superficialità, del tutto subito, del rifiuto dei limiti che la condizione umana pure ci impone. Rimasto tetraplegico e cieco, Fabo è atterrato in un mondo dove tutto quello che per lui era la vita non esisteva più. Inesorabilmente non gli restava che la morte. Qui Fabo si è ricordato dello Stato, di quei limiti che nella sua vita passata non vedeva e prima di morire il suo messaggio agli amici è stato proprio questo: mettetevi le cinture, cioè accettate di porvi un limite.
Forse è questa la riflessione a cui dovrebbe spingerci la morte di Fabo. Ancora prima di pretendere giustamente il diritto di toglierci la vita, dovremmo riapprendere a viverla la vita, ricondurla a un senso, riportarla nella misura della profondità e della responsabilità. Il nostro tempo esalta il corpo, la gioventù, la bellezza, in un’assurda pretesa di immortalità che la maggiore speranza di vita incoraggia. Che nulla venga a frapporsi fra l’individuo e la sua fame di vita! Da questa logica scaturisce anche la mentalità della prevaricazione, della mancanza di rispetto per gli altri, della trasgressione di ogni regola possibile. Perché il diritto a fruire di tutto quello che la vita ci offre non deve avere limiti. Neanche per i vecchi, anzi di vecchi non ce n’è più: sono tutti giovani anche loro. Chi è veramente vecchio e malato viene nascosto come una mostruosità che il mondo là fuori non vuole vedere. Ma in questa esaltazione della giovinezza, in questa ubriacatura di individualità, sono propri i giovani che rimangono fregati. Perché si illudono che la loro condizione sia eterna, che tutto sia a loro possibile. E quando il bel gioco si rompe, quando la natura li riporta ai loro limiti, allora non resta altro che la morte. Qui di colpo ridiventano importanti le regole, quelle regole che si erano così spavaldamente scavalcate per vivere alla grande. E si esige dallo Stato una risposta alla propria sofferenza, chissà, magari una legge che la vieti, assieme alla vecchiaia, la malattia e tutte le altre brutte cose del vivere.