Bruxelles – Non esiste nessun accordo tra l’Unione europea e la Turchia sulla questione migranti. Lo stabilisce il Tribunale dell’Unione europea, secondo il quale l’intesa sottoscritta lo scorso anno è un accordo tra governi, nel quale l’Unione non è coinvolta come tale.
Una decisione che farà molto discutere e saltare alcune certezze, anche i finanziamenti concessi da Bruxelles ad Ankara potrebbero essere messi ora in discussione.
In tre ordinanze emesse oggi, afferma il Tribunale, esso “si dichiara incompetente a conoscere dei ricorsi di tre richiedenti asilo avverso la dichiarazione UE-Turchia diretta a risolvere la crisi migratoria. Tale atto, infatti, non è stato adottato da una delle istituzioni dell’Unione europea”.
Nelle ordinanze il Tribunale spiega la storia dell’accordo, ricordando che “il 18 marzo 2016, sul sito Internet comune al Consiglio europeo e al Consiglio dell’Unione europea è stata pubblicata, sotto forma di comunicato stampa, una dichiarazione che precisa il modo in cui gli Stati membri dell’Unione e la Turchia intendono, da un lato, porre rimedio all’attuale crisi migratoria e, dall’altro, combattere il traffico di esseri umani tra la Turchia e la Grecia (‘Dichiarazione UE-Turchia’)”. I punti principali della dichiarazione, elencano i magistrati europei sono quattro: “Tutti i nuovi migranti irregolari che partono dalla Turchia per raggiungere le isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rinviati in Turchia; i migranti che giungeranno sulle isole greche saranno debitamente registrati e qualsiasi domanda d’asilo sarà trattata individualmente dalle autorità greche conformemente alla direttiva sulle procedure d’asilo; i migranti che non faranno domanda d’asilo o la cui domanda d’asilo sia ritenuta infondata o non ammissibile saranno rinviati in Turchia; per ogni siriano rinviato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia verso l’Unione”.
Il Tribunale è stato coinvolto da due cittadini pakistani e un cittadino afgano che si sono recati dalla Turchia in Grecia dove hanno presentato domande d’asilo, nelle quali affermavano che essi, per diverse ragioni, rischiavano di essere perseguitati se fossero ritornati nei loro rispettivi paesi di origine. Tenuto conto della possibilità, in applicazione della Dichiarazione UE-Turchia, di un rinvio in Turchia in caso di rigetto delle loro domande d’asilo, i tre hanno deciso di proporre ricorsi dinanzi al Tribunale dell’Unione europea al fine di contestare la legittimità della Dichiarazione, perché a loro parere questa costituisce un accordo internazionale che il Consiglio europeo.
Nelle ordinanze però “il Tribunale si dichiara incompetente a conoscere dei ricorsi a norma dell’articolo 263 TFUE e, pertanto, li respinge”. In queste decisioni il Tribunale rileva anzitutto che il comunicato stampa del 18 marzo 2016 conteneva imprecisioni riguardo all’individuazione degli autori della Dichiarazione UE-Turchia, “poiché esso indica, da un lato, che l’Unione, e non i suoi Stati membri, aveva deciso i punti d’azione complementari previsti in tale dichiarazione e, dall’altro, che erano i “membri del Consiglio europeo” ad aver incontrato il loro omologo turco nella riunione del 18 marzo 2016 che ha dato luogo al comunicato stampa.
“Orbene – sostengono i magistrati – il Tribunale considera che gli elementi di prova forniti dal Consiglio europeo, relativi alle riunioni condotte nel corso del tempo, nel 2015 e nel 2016, tra i capi di Stato o di governo degli Stati membri e il loro omologo turco in merito alla crisi migratoria, dimostrano che non è l’Unione, bensì i suoi Stati membri, in quanto soggetti di diritto internazionale, ad aver condotto negoziati con la Turchia in tale settore, e ciò anche il 18 marzo 2016”.
Secondo il Tribunale dunque “vari documenti ufficiali prodotti dal Consiglio europeo attestano che il 17 e il 18 marzo 2016 due eventi separati sono stati organizzati in parallelo presso la sede di tale istituzione a Bruxelles, in presenza dei rappresentanti degli Stati membri dell’Unione riuniti a livello di capi di Stato o di governo. Tali due eventi hanno seguito procedimenti distinti sul piano giuridico, protocollare e organizzativo”. Secondo i giudici, da un lato, una sessione del Consiglio europeo, in quanto istituzione dell’Unione, si è tenuta il 17 marzo con la partecipazione dei rappresentanti degli Stati membri che agivano in qualità di membri di tale istituzione. Dall’altro, “un vertice internazionale ha avuto luogo il giorno successivo in presenza del Primo ministro della Repubblica di Turchia e di questi stessi rappresentanti degli Stati membri, che, questa volta, agivano in qualità di capi di Stato o di governo”.
È in quest’ultima qualità, rileva il Tribunale, che il 18 marzo 2016 i capi di Stato o di governo degli Stati membri hanno incontrato il loro omologo turco in merito alla crisi migratoria e hanno proceduto all’adozione della Dichiarazione UE-Turchia, i cui punti principali sono stati riassunti nel comunicato stampa dello stesso giorno.
Di conseguenza, “il Tribunale rileva che né il Consiglio europeo né alcun’altra istituzione dell’Unione ha deciso di concludere un accordo con il governo turco in merito alla crisi migratoria. In mancanza di un atto di un’istituzione dell’Unione di cui possa sindacare la legittimità ai sensi dell’articolo 263 TFUE, il Tribunale si dichiara incompetente a conoscere dei ricorsi dei tre richiedenti asilo”.
Inoltre alla luce del riferimento contenuto nella Dichiarazione, al fatto che “l’[Unione] e la [Repubblica di] Turchia avevano concordato punti di azione complementari”, il Tribunale considera che, “anche supponendo che un accordo internazionale possa essere stato concluso informalmente nel corso della riunione del 18 marzo 2016, circostanza che, nel caso di specie, è stata negata dal Consiglio europeo, dal Consiglio dell’Unione europea e dalla Commissione europea, tale accordo sarebbe stato fatto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri dell’Unione e dal Primo ministro turco”. Fatto che ribadisce che, in base al ricorso presentato, “il Tribunale non è competente a pronunciarsi sulla legittimità di un accordo internazionale concluso dagli Stati membri”.