di Marco Speroni
Il cambiamento climatico è una delle sfide globali più grandi che l’umanità dovrà affrontare nei prossimi decenni. Tuttavia, nonostante la sua esistenza sia accettata e supportata largamente da parte degli scienziati e dei policymaker di tutto il mondo, non esiste un’opinione comune a tutti gli Stati dell’urgenza con la quale è necessario intervenire.
In linea teorica e pratica esistono due principali problemi da tenere in considerazione per capire e pesare i successi e gli insuccessi degli accordi sul clima. Il primo di questi problemi è che non esiste un senso di urgenza e priorità del problema condiviso tra gli Stati. Per i piccoli Stati insulari (ma anche per gli Stati con ampie aree pianeggianti adiacenti alle coste come, ad esempio, il Bangladesh) l’innalzamento del livello degli oceani, diretta conseguenza del surriscaldamento e dello scioglimento dei poli, costituisce una seria minaccia alla loro sopravvivenza. Invece, per i paesi più industrializzati, i principali problemi legati ai cambiamenti climatici sono gli elevati livelli di smog e il deterioramento delle risorse ambientali con i rischi ad esso collegati (come i rischi idrogeologici). In questa seconda categoria di Stati, spesso, esiste un trade-off tra i costi ed i benefici derivanti dalle politiche economiche “verdi”. I costi sono quelli necessari per trasformare le catene di produzione, trasformazione e distribuzione di alcuni settori economici che attualmente dipendono dai combustibili fossili. Il problema di base è quello che in scienza politica ed economica viene definito “incoerenza temporale”. Mentre i costi della trasformazione economica sono immediatamente percepibili, i benefici della salvaguardia ambientale si percepiscono solo sul medio e lungo periodo. Ma il governo che adotta tali politiche è soggetto alle pressioni del mercato elettorale e politico e, in questi termini, può essere portato a preferire blande politiche ambientali a soluzioni più impegnative. Questa è una delle ragioni per cui i paesi più industrializzati e quelli che più inquinano, come ad esempio Cina e Stati Uniti, sono restii ad adottare impegni internazionali o, quando ciò avviene, a rispettarli, mentre altri, come i microstati dell’Oceania, premono per una cooperazione rafforzata.
La seconda ragione per cui è difficile adottare politiche ambientali internazionali concerne la natura stessa del problema. Clima ed ambiente sono beni comuni a tutti gli Stati, ciò vuol dire che il loro deterioramento causa costi condivisi da tutti (ad esempio l’inquinamento atmosferico prodotti da un’impresa) a fronte di benefici individuali (i fatturati dell’impresa). Il problema dei beni comuni è quindi la possibilità che alcuni attori, in questo caso gli Stati, possano non rispettare gli impegni adottati sperando che gli altri lo facciano. Questo pericolo genera reciproca diffidenza tra gli Stati e contribuisce a rallentare e indebolire la cooperazione ambientale. Il problema, anche definito del free rider o dilemma del prigioniero, è comune a tutti i tipi di cooperazione tra Stati proprio perché le relazioni internazionali nascono per produrre o preservare beni comuni. Il problema è stato solitamente risolto con la creazioni di organi, agenzie o sistemi di norme che puniscano e disincentivino il mancato rispetto degli impegni presi. Tuttavia, gli Stati, nel caso delle politiche ambientali internazionali, si sono mostrati restii a tali soluzioni.
Come detto sopra, le politiche ambientali permeano asset fondamentali dell’economia e della società rendendo gli Stati avversi ai cedimenti di sovranità ad organizzazioni internazionali (dati gli ampi margini di manovra di cui avrebbe bisogno un’agenzia o un organo di questo tipo). Questo comportamento è assimilabile all’opposizione di alcuni stati dell’UE a quelle politiche di integrazione, come quella dell’immigrazione, particolarmente rilevanti in politica interna. Presi in considerazione questi due problemi, del free rider e dell’incoerenza temporale, è possibile comprendere il perché dei limiti degli accordi fino ad ora raggiunti.
Il principale programma internazionale per le politiche ambientali è il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), nato nel 1972 a seguito della Conferenza di Stoccolma e della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’ambiente umano. Ad ogni modo, bisogna attendere il 1998 e la terza Conference of Parties (o COP3) per assistere alla firma del primo, storico, accordo internazionale sul clima: il Protocollo di Kyoto.
Il Protocollo è il primo accordo internazionale nel quale gli Stati si impegnano a rispettare degli impegni precedentemente decisi tra tutte le parti. Il traguardo è quello della riduzione complessiva del 20% delle emissioni di CO2 dell’anno base 1990 entro il 2020 (anno di scadenza dei termini deciso nella COP18 di Doha). La logica con la quale questi impegni vengono distribuiti è quella del principio delle responsabilità comuni ma differenziate esplicitato nella Dichiarazione di Rio del 1992. Questo principio si basa sull’assunto fondamentale per cui, sebbene tutti gli Stati siano responsabili dell’inquinamento atmosferico e del deterioramento ambientale, alcuni lo sono più di altri. Ovviamente, la responsabilità ricade maggiormente sugli Stati sviluppati che hanno raggiunto alti livelli di industrializzazione già da diversi decenni e in maniera minore sugli altri. Il principio delle responsabilità comuni ma differenziate è ben lontano dall’essere un criterio privo di difetti e i suoi aspetti controversi sono la principale causa di uno dei grandi fallimenti del Protocollo: la mancata ratifica degli Stati Uniti.
L’argomentazione che gli americani hanno portato avanti fin da subito, pur ammettendo le responsabilità dell’economia americana nell’innalzamento dei livelli di gas serra nell’atmosfera, tende a minimizzare il ruolo che gli USA dovranno ricoprire nei decenni futuri. Per capire la logica della critica statunitense è fondamentale ricordare la metodologia attraverso la quale si è cercato di far valere il principio della responsabilità comune ma differente. Il protocollo fissa soglie di riduzione delle emissioni negoziate tra il 1995 e il 1998 dai 44 Stati contenuti nella prima appendice. Vennero esclusi dalla prima appendice i paesi in via di sviluppo, comprese importanti economie in rapida crescita come Cina, India e Brasile. Questi paesi, sebbene parti firmatarie dell’accordo, non vennero sottoposti a nessun regime di riduzione delle emissioni.
Ne emerge un aspetto alquanto contraddittorio del Protocollo di Kyoto che, da una parte, si pone traguardi ambiziosi a lungo termine e, allo stesso tempo, mostra una visuale limitata dei processi macroeconomici in corso. Infatti, sebbene nel 1998 la Cina fosse considerata ancora una nazione in via di sviluppo, il suo PIL, secondo i dati della World Bank, cresceva già ad un ritmo annuo del 7%. È evidente come la decisione del 1998 di mantenere fuori dall’accordo Stati come la Cina, l’India o il Brasile si sarebbe rivelata, nell’arco ventennale dell’accordo, un punto di estrema debolezza del Protocollo. In termini pratici, ad esempio, secondo i dati della World Bank l’emissione di CO2 cinese è passata (in termini di migliaia di tonnellate) dalle 414 mila del 1998 alle 587 mila del 2012. Questo meccanismo ha prodotto due esiti fallimentari. Da una parte non ha raggiunto gli obbiettivi ma, al contrario, ha avuto un esito opposto (le emissioni di CO2 sono progressivamente aumentate a partire dal 1998). Dall’altro, il principio delle responsabilità comuni ma differenziate ha fornito un pretesto al Congresso Americano per non ratificare l’accordo.
Il Protocollo di Kyoto scadrà nel 2020, anno in cui entrerà in vigore l’Accordo di Parigi del 2015 il quale, per i motivi fallimentari sopra spiegati, si differenzia di molto dal suo predecessore del 1998. Innanzi tutto, cambiano i termini dei traguardi che l’accordo si prefissa. Il principale di questi obbiettivi è il mantenimento delle temperature globali al di sotto dei fatidici due gradi centigradi, oltre i quali differenti modelli climatici prospettano sconvolgimenti ambientali più o meno gravi ma, in ogni caso, drammatici. L’altro importante obbiettivo è quello del raggiungimento del picco di emissioni entro la metà del secolo. Il meccanismo con la quale si tenterà di raggiungere questi obbiettivi è ben diverso da quello delle riduzioni obbligatorie per gli Stati previsto dal Protocollo di Kyoto. Memore del fallimento del suo predecessore, l’Accordo di Parigi si basa su due principali strumenti: i National Determined Contributions (NDCs) e il meccanismo per rimborsare perdite e danni ai soggetti colpiti da eventi climatici straordinari. Il sistema delle NDC prevede che, ogni 5 anni, gli Stati presentino i loro piani di mitigazione delle emissioni. Le NDC non possono essere considerate una assicurazione sufficiente affinché gli Stati riducano le loro emissioni. Tuttavia, il meccanismo è stato adottato tenendo in considerazione il fallimentare tentativo di imporre misure troppo stringenti agli stati. Questo approccio ha già mostrato netti margini di miglioramento rispetto al suo predecessore. L’accordo di Parigi è stato ratificato da più del 55% degli Stati membri le cui emissioni superano il 55% del totale annuo. Così facendo l’accordo è entrato in un tempo record di 11 mesi se lo si compara con il Protocollo di Kyoto per il quale sono serviti 7 anni.
L’Unione europea ha un’importante potenziale da poter sviluppare per quanto riguarda le politiche verdi. In un mondo che va verso un sistema multipolare, con la presidenza Trump che marca la ritirata dell’America dagli affari globali e con l’apertura del colosso cinese alla globalizzazione e alla cooperazione ambientale ci sono tutte le condizioni affinché l’Europa possa emergere come soggetto trainante per il futuro.