Bruxelles – Una conferma di Jeroen Dijsselbloem a capo dell’Eurogruppo potrebbe essere un possibile banco di prova per il futuro funzionamento dell’Ue. Il socialista olandese rischia di dover lasciare la guida del consesso dei ministri economici dell’area Euro se il suo partito, alle elezioni del prossimo mese, dovesse perdere e ci dovesse essere un cambio del governo.
In quel caso dovrà lasciare la presidenza dell’Eurogruppo? Se lo stanno domandando in molti a Bruxelles, come nelle altre capitali europee. Dijsselbloem ha ottenuto un secondo mandato di due anni e mezzo a luglio 2015, il che vorrebbe dire che potrebbe restare in carica fino a gennaio 2018. Ma potrà farlo anche se da marzo non sarà più ministro delle Finanze? Il tema è di quelli caldi, specie in un momento in cui ci si interroga su come ridefinire l’Ue. Si parla di Europa a due velocità, si ipotizza la creazione di un ministro delle finanze europeo. Dijsselbloem, in tale ottica, può rappresentare il punto di avvio di questo processo di rinnovamento. L’olandese vorrebbe mantenere il ruolo che ricopre dal 21 gennaio 2013, e c’è chi giura che potrebbe riuscirci anche in caso di avvicindamento al ministero di cui è attualmente responsabile.
Non ci sono regole precise per l’Eurogruppo, organismo informale che pure nella sua natura prende decisioni importanti di politica economica. Finora si è sempre dedotto che toccasse a un ministro delle Finanze in carica esercitare la funzione di coordinamento. Una prassi interrotta però con Jean-Claude Juncker, non più ministro dal 2009. Da lì in poi Juncker gestì però l’Eurogruppo nella veste di primo ministro di Lussemburgo (Dijsselbloem potrebbe addirittura trovarsi all’opposizione), nonostante Luc Frieden fosse ministro responsabile. Segno che le prassi possono mutare. I trattati sul funzionamento dell’Unione non fissano procedure chiare sull’elezione del presidente dell’Eurogruppo. Il protocollo 14 sull’Eurogruppo si limita a dire che “i ministri degli Stati membri la cui moneta è l’euro eleggono un presidente per un periodo di due anni e mezzo, a maggioranza di tali Stati membri”. La deduzione è che i ministri competenti nominino un presidente tra loro. Ma è una deduzione.
A quanto sembra Dijsselbloem intende ricorrere agli strumenti interpretativi per chiarire che i ministri possono eleggere anche un non ministro a capo dell’organismo informale. Ciò gli garantirebbe il mantenimento della guida dell’Eurogruppo anche se dovesse cessare le funzioni di responsabile economico nel suo Paese. Un tale scenario, vista nell’ottica di un dibattito europeo teso alla creazione di un vero e proprio ministro delle finanze europeo, potrebbe aprire a quei cambiamenti a trattati correnti che molti invocano. Un’interpretazione flessibile delle regole per dare più ampio respiro all’Ue è quello che praticamente tutti chiedono in questo momento. Poi in futuro si potrà pensare di modificare i trattati. Senza modificare i testi alla base dell’Ue e del suo funzionamento, una nuova prassi potrebbe aprire la strada alla creazione di una nuova figura e preparare il terreno ai cambiamenti che verranno. Attorno alla figura di Jeroen Dijsselbloem sembra ruotare dunque una buona parte del dibattito sul futuro dell’Unione. Le elezioni olandesi di marzo serviranno a fornire alcune delle risposte che l’Europa è chiamata a dare da qui in avanti.