di Gustavo Piga
L’unione politica è cosa diversa dalla proposta, avanzata in un documento del 1994 da Wolfgang Schäuble e Karl Lamers, di creare una kerneuropa o core Europe. Per i due esponenti cristiano-democratici tedeschi, la kerneuropa avrebbe dovuto essere costituita (almeno inizialmente) dei Paesi in grado di rispettare precisi parametri economici. Tuttavia, un’unione che compone o federa Stati diversi può nascere solamente da una scelta di natura politica, non già da una pre-condizione economica, ovvero dalla volontà di condividere la propria sovranità con altri Stati sulle politiche di valenza europea, preservando la propria sovranità (e responsabilità) sulle politiche di valenza nazionale. Ecco perché occorre liberarsi dalla tirannia delle formule ambigue. Esse non aiutano a fare le scelte necessarie. La Dichiarazione di Roma dovrebbe indicare con chiarezza la necessità di costruire un’unione politica a partire dai Paesi che condividono la moneta comune, non già cincischiare con formule che ogni Paese può interpretare come più gli conviene.
Sergio Fabbrini, “La crisi europea e la tirannia delle ambiguità”
In un articolo alquanto complesso e non proprio lineare Fabbrini sul Sole 24 Ore conclude richiedendo che l’Unione europea non sposi la visione ambigua (solo momentaneamente perorata dalla cancelleria Merkel) di un’Europa a doppia velocità e si concentri piuttosto con il procedere spedita verso una unione politica senza che questa sia legata a particolari comunanze sulla politica economica.
Il tema è rilevante perché sarà alla base delle discussioni di fine marzo nella nostra capitale, in occasione dei 60 anni del Trattato di Roma.
La proposta di Fabbrini appartiene al reame delle possibilità? Qualcuno direbbe di no, visto l’attuale scetticismo prevalente su un futuro europeo comune, ma invece sì. La mancanza di democraticità di tante scelte europee passate non può infatti farci escludere che gli attuali capi di governo europei (difficile chiamarli leader) spingano sull’acceleratore dell’Unione politica, malgrado di fronte non troverebbero che un burrone, quello del populismo crescente che si alimenterebbe di consenso a seguito di una tale decisione.
La proposta di Fabbrini ha inoltre un altro difetto: che oscura il quadro di quale possa essere la soluzione più appropriata. Detta in altro modo: facendoci intravedere il burrone potrebbe spostare l’asse del dibattito alternativo verso il mettere il motore in folle (non fare nulla) o addirittura innestare la retromarcia (assecondare i populisti, per esempio lasciando andare la Grecia fuori dall’euro) e precipitare in altro strapiombo. Senza accorgersi che a accanto c’è una strada, oscura e senza una chiara indicazione di dove finisca, che può rappresentare l’unica soluzione di, seppur momentanea, sopravvivenza.
Perché non è vero, come afferma Fabbrini, che si può procedere, sperando in un successo realistico, verso una unione politica senza concordare anzitutto la costituzione economica su cui questa si dovrà fondare. Oggidì, entrare in una unione politica che stabilisce di approvare a fine anno il fiscal compact come ortodossia fiscale – che guidi il futuro ministro europeo delle finanze – significa far scoppiare la rivolta nell’asse meridionale dell’area euro. Parimenti, entrare in una che non lo preveda significa garantirsi la rivolta dell’area nord dei paesi euro. È arrivato il tempo di lasciar andare proposte che si ancorino su avanzamenti giuridici dell’Europa senza che questi affondino le loro fondamenta sulla rappresentanza democratica dei cittadini tutti, delle loro sofferenze, delle loro speranze e dei loro ideali.
C’è una strada alternativa, dicevamo. Questa ha il vantaggio che indica sì un percorso incerto, ma che garantisce almeno per alcuni anni la sopravvivenza dell’Unione, dandole quell’ossigeno necessario a permettere di ritrovare un senso di coesione proprio perché “nessuno impone all’altro qualcosa”, fattore questo che ha generato sempre sinora grande acrimonia interna all’Unione e crescita esponenziale dei populismi. Il suo scopo? Essa deve al contempo arrestare credibilmente qualsiasi marcia in avanti e all’indietro. Per riuscire nella prima frenata, l’Italia può giocare un ruolo decisivo, mettendo il proprio veto alla firma di fine anno dell’inserimento del fiscal compact nel Trattato dell’Unione europea. Non sarebbe un’imposizione ad altri, ma piuttosto il saggio richiamo – del paese dove il Trattato ebbe la sua nascita e della terra dove si svilupparono i semi della civiltà europea – a un dibattere senza condizionamenti il senso di una unione di comunità ancora diverse tra loro. Per riuscire nella seconda, la Germania può essere centrale, proponendo che coloro che lo desiderano, all’interno dell’area euro ma anche dell’Unione, celebrino nel concreto un patto simbolico di difesa comune con la creazione di un esercito comune europeo, capace di avvicinare popoli diversi, come avvenne per l’Italia del Nord e del Sud, legatosi anche grazie al servizio militare obbligatorio. Da qui potremmo finalmente sperare che la strada fitta di arbusti cominci a mostrare uno squarcio, un senso di direzione, comune, non verso un burrone ma verso un luogo sicuro dove si possa costruire pacificamente la casa della futura comunità europea.
Può sembrare una strategia modesta, quello dell’ambiguità attendista. Ma è l’unica che la Storia ha spesso premiato, quando casualmente l’attesa e la fortuna hanno fatto sì che un seme buono potesse crescere e diventare foresta, piuttosto che assistere all’impianto pianificato da parte di un giardiniere crudele o incompetente che ha dato vita ad un’erbaccia antidemocratica alla fine rimossa da chi ha avuto la forza di ribellarsi.
Pubblicato sul blog dell’autore il 12 febbraio 2017.