di Matthew C. Klein
A partire dalla metà degli anni ’90 l’industria americana ha perso quote di mercato e posti di lavoro rispetto ai suoi concorrenti stranieri. Ciò ha causato ripercussioni politiche le cui conseguenze iniziano appena ad essere avvertite.
Una delle conseguenze che si va delineando con sempre più chiarezza è che le regole del sistema commerciale globale dovranno necessariamente cambiare.
Come per altre questioni politiche nell’America di oggi, è pressoché impossibile anticipare la direzione che questi cambiamenti prenderanno, tuttavia il commercio è chiaramente uno dei settori in cui l’esecutivo ha un margine d’azione più ampio per cambiare le politiche senza il consenso del Congresso rispetto a, per esempio, la politica fiscale, la normativa finanziaria, la sanità o le infrastrutture. (Alexandra Scaggs fornisce qui più dettagli.) La nuova amministrazione è stata piuttosto esplicita su come la pensa in tema di commercio:
- Il disavanzo complessivo della bilancia commerciale si può ridurre concentrandosi sui deficit commerciali bilaterali con i singoli paesi.
- I deficit commerciali bilaterali sono causati da “accordi sbagliati” che necessitano di revisione caso per caso.
Pertanto, la strada per rilanciare il mercato del lavoro americano è di rinegoziare “accordi più favorevoli” con la Cina, il Giappone, la Germania ed il Messico, poiché i deficit bilaterali con questi quattro paesi ammontano sistematicamente a circa tre quarti del deficit commerciale americano per quanto riguarda le merci ed all’intero deficit commerciale di beni e servizi nel 2015, l’ultimo anno di cui sono disponibili dati completi.
Benché ci siano parecchi motivi per pensare che nel loro complesso le regole attuali non vadano nell’interesse dell’americano medio e che possano essere migliorate, questo ragionamento lascia comunque molto a desiderare.
Per tracciare un quadro completo della situazione al posto della miope ossessione sugli equilibri commerciali bilaterali, è necessario comprendere le tendenze globali del risparmio e del consumo. Ciò porterebbe a capire che il Messico non è affatto decisivo, che la Cina è meno preoccupante di quanto si pensi e che il problema principale sono l’eurozona, la Svizzera, la Corea, Taiwan e Singapore. In particolare, è possibile ipotizzare soluzioni che soddisfino i negoziatori americani ed allo stesso tempo migliorino le condizioni di vita nei paesi destinatari. I vantaggi per gli americani non devono necessariamente venire a scapito dei lavoratori stranieri.
Per capire il perché, può essere utile fare un passo indietro e studiare le basi.
Le esportazioni sono importanti perché creano lavoro e perché con i proventi delle vendite si possono pagare le importazioni. Le importazioni, d’altra parte, sono anche importanti, perché non tutti i beni e servizi domandati possono essere prodotti internamente, e perché la concorrenza con i prodotti esteri favorisce la produttività dell’industria nazionale, il che va a beneficio di tutti i consumatori.
Un paese ha un deficit commerciale quando i suoi residenti acquistano più beni e servizi di quanti ne vendano al resto del mondo. Viceversa, un paese ha un surplus commerciale quando i suoi residenti producono più beni e servizi di quanti ne consumino. In altre parole, un deficit commerciale significa che i consumatori consumano più beni reali di quanti ne producano, mentre un surplus commerciale è il segnale che i consumatori lavorano per produrre beni che poi non utilizzano direttamente.
Si può pertanto essere indotti a pensare che grandi deficit commerciali siano indice de fatto che il paese stia “vincendo” rispetto al resto del mondo. Dopotutto, i “perdenti” con i loro surplus “cedono” beni e servizi in cambio di semplici promesse scritte, che qualsiasi bravo negoziatore potrebbe in futuro rinegoziare. Ad ogni modo.
Lo scambio di beni e servizi è solo una parte — in genere, ma non necessariamente, preponderante — della bilancia delle partite correnti, che misura tutti i flussi di reddito a livello transnazionale. Un’altra componente della bilancia delle partite correnti sono gli interessi e i dividendi sui titoli di Stato all’estero, i salari pagati ai lavoratori pendolari transfrontalieri, gli aiuti esteri, le rimesse degli emigrati e le sanzioni internazionali.
Quando la bilancia delle partite correnti è in deficit, significa che i cittadini del paese, a livello aggregato, stanno spendendo più di quanto guadagnano. Un surplus nella bilancia delle partite correnti significa che i residenti del paese spendono meno di quanto guadagnano.
Il rovescio della medaglia della bilancia delle partite correnti si chiama conto finanziario. Per spendere più di quanto si guadagna si può coprire la differenza o con la vendita di asset o con un prestito a fronte di un credito sul reddito futuro. Analogamente, quando le entrate superano le uscite bisogna in qualche modo impiegare il surplus di bilancio, o versando il denaro in un conto in banca (prestiti) o acquistando azioni e titoli (investimenti di portafoglio) o con l’acquisizione di beni immobili o imprese (investimenti diretti).
In effetti, i movimenti nel conto finanziario sono più significativi di diversi ordini di grandezza rispetto a quelli nella bilancia delle partite correnti, oltre ad essere molto più esposti a variazioni improvvise. Di conseguenza, almeno per quanto riguarda l’America, il conto finanziario sopravanza il conto delle partite correnti, e per estensione anche la bilancia commerciale, e conta molto più di tutto ciò che normalmente ricade nell’ambito della “politica commerciale”.
Per questo motivo, concentrare tutta l’attenzione sugli equilibri commerciali non ha senso.
Immaginiamo che i risparmiatori olandesi comprino più titoli americani di quanto gli americani spendano per accumulare titoli olandesi, il che in ultima analisi stimola il potere d’acquisto relativo dei consumatori americani, che possono a loro volta utilizzare il denaro extra per fare il pieno di prodotti messicani. La “colpa” di questa situazione sarebbe dell’Olanda o del Messico?
Per rispondere a questa domanda bisogna guardare all’equilibrio complessivo fra risparmio e spesa in ciascun paese.
Supponiamo che consumatori e imprenditori americani acquistino più prodotti messicani a scapito dei beni e servizi locali perché quelli messicani sono più economici. Consumatori e imprese messicani si ritroverebbero con un maggior potere d’acquisto per acquistare beni e servizi da paesi esteri. I cittadini di questi paesi si ritroverebbero con più denaro, magari da spendere in prodotti americani. Che la domanda provenga dall’India o dall’Italia non fa alcuna differenza.
L’effetto netto sull’America dipende da quanto il resto del mondo nel suo complesso sia propenso a consumare beni e servizi di provenienza americana. Le variazioni in uno specifico equilibrio commerciale bilaterale possono riversarsi su altri paesi senza alcun beneficio per chi ha chiesto il cambiamento.
Ma perché preoccuparsi tanto di deficit e surplus? Dopo tutto, non c’è nulla di male nello spendere più di quanto si guadagni. In certi casi può essere ragionevole investire in beni che aumentino il reddito futuro o limitino le spese future. L’equilibrio delle partite correnti – in sé – non implica affatto che una determinata società sia “competitiva” o “oziosa” o “viva al di sopra delle proprie possibilità” o sia “virtuosa”. Né ci dice se alcuni paesi sono sfruttati da altri.
Ciò che conta è se il rendimento sugli investimenti supera la spesa per sovvenzionarli, e se la forma dell’investimento è abbastanza flessibile da poter evitare le inevitabili variazioni dei profitti.
Il problema è nato alla metà degli anni ’90, con un aumento vertiginoso dei flussi di capitali tra una nazione e l’altra. La curva mostra la somma dei valori assoluti di tutte le partite correnti nel mondo in relazione all’output globale. Questo indicatore è cresciuto da circa il 2 percento del PIL mondiale nel 1995 fino al picco del 5,5 percento nel 2006.
Se ignorassimo ciò che accadeva in quel periodo, e ci basassimo solo sui dati disponibili del 1995, potrebbe sembrare che la curva indichi un significativo incremento dei flussi di capitale dai paesi ricchi, fra cui gli Stati Uniti, verso i più poveri, man mano che questi investivano e “convergevano” verso standard di vita più alti. Ad esempio, ci si aspetterebbe che la Cina sia stata uno dei principali beneficiari netti di investimenti esteri da America, Europa occidentale e Giappone.
In quel caso le cose avrebbero potuto funzionare, ma non è così che è andata. Il capitale si è spostato nella direzione sbagliata:
Invece di finanziare investimenti produttivi nei paesi in prevalenza più poveri, i risparmi esteri hanno gonfiato le bolle immobiliari ed alimentato i consumi correnti in America (e Regno Unito), sostenendo monete sopravvalutate a detrimento della base produttiva interna. Come se ciò non bastasse, questo spreco di risorse è stato finanziato principalmente da un debito privato insostenibile. Il debito si è sostituito alla crescita dei redditi. (Ovviamente, le cose stanno ancora peggio se si guarda alla composizione dei flussi lordi invece che ai dati netti).
Il problema nel suo complesso è che c’è troppo denaro ma non ci sono abbastanza opportunità di investimento proficue. Malgrado il recente rialzo, i tassi di interesse reali sono crollati perché le persone, e specialmente le imprese non finanziarie, sono più inclini a risparmiare che a spendere. I pochi paesi disposti a (o abbastanza stupidi da) indebitarsi per investire in progetti inutili hanno sovvenzionato il resto del mondo sacrificando l’occupazione nei settori produttivi.
Gli “sperperi” americani (e britannici) sono semplicemente il risultato della reticenza del resto del mondo a consumare di più. Il tasso di risparmio estero dipende dal saggio negativo dei paesi anglosassoni e in particolare dalla propensione di questi paesi a vendere titoli sui rendimenti futuri ad investitori stranieri.
In quest’ottica, chiunque si dica determinato a porre l’“America prima di tutto” dovrebbe concentrarsi esclusivamente sui paesi con i maggiori surplus di bilancio delle partite correnti, dato che sono questi ad incidere di più sulla bilancia commerciale americana ed a rendere più difficile alle famiglie americane poter risparmiare. Inoltre, questi negoziatori dovrebbero spingere tali paesi a cambiare le loro politiche nella direzione di aumentare il potere d’acquisto dei loro consumatori, perché ciò darebbe un aiuto sostenibile ed efficace agli esportatori americani e ridurrebbe il peso del debito.
Allo stato attuale delle cose, questi paesi sono, nell’ordine: Germania, Cina, Giappone, Corea, Taiwan, Olanda, Svizzera e Singapore. Questi otto paesi hanno un surplus complessivo pari all’1,5 per cento della produzione globale. Ad eccezione della Corea, tutti ed otto sono anche stati fonti principali di risparmio netto per il resto del mondo a partire dagli anni 2000. Per converso, America, Regno Unito, Australia e Canada hanno un deficit complessivo pari all’1 per cento della produzione globale.
Va anche evidenziato che in questo divario il Messico è stato costantemente dalla stessa parte degli Stati Uniti. Sulla base delle analisi dell’FMI, fin dal 1995 a livello aggregato il Messico ha speso costantemente più di quanto ha prodotto. Nel 2016 il Messico aveva, in termini assoluti, l’ottavo più grande deficit di partite correnti al mondo. Anzi, il deficit del Messico come percentuale del PIL mondiale si avvicina al suo massimo storico.
Chiunque abbia davvero a cuore i problemi che affliggono la bilancia commerciale dell’America dovrebbe dunque cercare un’alleanza con il Messico, in un impegno comune contro gli spilorci impegnati a soffocare i loro consumi facendo affidamento sulla disponibilità degli altri a finanziare il loro stile di vita.
Volendo stabilire una priorità, l’America dovrebbe concentrare i suoi sforzi sull’eurozona.
I responsabili politici coreani e giapponesi sono pienamente consapevoli della scarsa propensione ad investire dei loro operatori economici, e negli ultimi anni hanno tentato, con scarso successo, di cambiare questo stato di cose con una serie di iniziative politiche. Non è quindi chiaro come le pressioni americane potrebbero aiutare, anche se incoraggiare la spesa pubblica, specialmente per equipaggiamenti militari, potrebbe aiutare. Su un altro fronte, l’isolamento di Taiwan dal sistema internazionale fornisce una legittima giustificazione per tutelarsi contro il rischio di un’improvvisa fuga di finanziamenti esteri. (E comunque non basta a giustificare la continua crescita del suo surplus in relazione alla produzione mondiale).
Per contrasto, la nefasta influenza dell’eurozona sul resto del mondo è la conseguenza di deliberate scelte politiche, che affliggono prima di tutto i loro cittadini. Se si include la Danimarca, la cui valuta è agganciata all’euro, l’intero blocco ha un surplus di partite correnti complessivo pari allo 0,7 per cento della produzione globale. Si tratta di un fenomeno abbastanza recente, trainato da Germania, Olanda ed altri paesi con analogo orientamento.
Tra il 2001 ed il 2008, la Germania e i paesi del nord Europa ad essa affini hanno incrementato il loro surplus complessivo di circa 0,6 punti percentuali del PIL mondiale. Ciò è controbilanciato dal resto dell’eurozona, che ha visto il suo equilibrio di bilancio deteriorarsi di 0,7 punti percentuali del PIL.
La causa immediata della crisi dell’euro è stata il netto calo della disponibilità degli europei del nord a sostenere questi squilibri. L’imperativo tedesco verso la “disciplina” ha indotto i paesi che dipendevano da finanziamenti esterni a distruggere la domanda interna in cambio di prestiti di salvataggio. Ma mentre il surplus tedesco del periodo pre-crisi era sempre stato assorbito da Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e, soprattutto, Spagna, gli aggiustamenti successivi non sono affatto stati sovvenzionati da spese più elevate nell’austero nord.
Al contrario, il tentativo di trasformare l’eurozona in una Grande Germania ha semplicemente scaricato i continui surplus dell’Europa germanofona, dell’Olanda e della Scandinavia sul resto del mondo. Tra il 2008 ed il 2016 l’equilibrio di bilancio complessivo è variato di 0,8 punti percentuali del PIL mondiale. Questo si spiega quasi integralmente con il crollo dei consumi e degli investimenti in Grecia, Irlanda, Italia, e Spagna, che è stato principalmente la conseguenza di scelte politiche portate avanti dalla BCE, dall’Eurogruppo, e dall’FMI, con orientamenti precisi da parte di Germania ed Olanda.
Si può obiettare che parte della spesa in quei paesi nel 2008 fosse improduttiva e che il crac successivo fosse almeno in parte prevedibile, per quanto i dati sull’inflazione dei prezzi al consumo facciano pensare il contrario.
Ma anche se così fosse, l’avarizia di consumatori, imprese e governi del nord Europa non sarebbe comunque giustificata. Ad esempio, le famiglie olandesi hanno oggi un tenore di vita più basso rispetto a dieci anni fa a causa dello sgonfiarsi della bolla immobiliare in concomitanza all’austerità fiscale. I tedeschi stanno un po’ meglio, ma non molto. Come per i loro vicini, il loro governo è irragionevolmente votato a rispettare il pareggio di bilancio, mentre le imprese rifiutano di alzare i salari.
Gli americani hanno a lungo tentato di persuadere i nord europei a consumare di più, nella non irragionevole speranza che i responsabili politici teutonici desiderino agire nell’interesse dei propri cittadini. (E se poi parte di quel denaro finisce in tasca ai lavoratori americani, la cosa non guasta). Finora hanno sempre fallito, ma le ultime coorti potrebbero avere più successo. Il quel caso, il vantaggio sarebbe non solo degli americani ma di tutto il mondo.
Pubblicato su blog Alphaville del Financial Times il 2 febbraio 2017. Traduzione di Margherita Russo per Voci dall’Estero.