di Pierluigi Fagan
Questo articolo è di taglio storico-politico quindi attiene all’attualità non per richiami contingenti all’Unione europea o all’euro ma perché l’Europa è un subcontinente in cui si pone il problema geopolitico in forme pressanti e decisive, problema da affrontare con una prospettiva temporale larga.
Europa – Europe
1. Europa è considerata espressione geografica ma con alcuni corollari. Il primo corollario è che anche solo “geograficamente”, Europa è un sistema impreciso, avendo tre confini certi ed uno – quello orientale – incerto, per lo meno per la piana tra fine degli Urali ed i tre bacini del Mar Nero, del Caspio e il lago d’Aral, che rimane aperta al centro Asia. Il secondo corollario è che la stretta vicinanza con Turchia, Medio Oriente e Nord Africa la rendono molto sensibile alle interrelazioni con ciò che lì succede. Europa non è un sistema isolato. I due corollari portano al terzo, ovvero la constatazione che per quanto attiene alla Russia si ha a che fare con un sistema che geograficamente (anche se non demograficamente) è più asiatico che europeo. Per quanto attiene all’Europa del sud-est, si ha a che fare con un sistema storicamente molto influito sia dalle migrazioni centro-asiatiche, sia dalla penisola anatolica (impero bizantino e poi ottomano), sia dalle divisioni determinate dalla contrapposizione est-ovest del Novecento. Per quanto attiene la Gran Bretagna, non solo questa deriva da una storia isolana (non isolata ma isolana) ma ha manifestato molta più propensione storico-culturale verso l’America del Nord che non verso l’Europa, almeno dalla fine della Guerra dei cent’anni in poi (1453).
Definito così il sistema con incertezza dei confini (più certi quelli nord-ovest, meno quelli sud-est), l’Europa è un territorio assai complesso. Dotato di penisole grandi (scandinava, iberica, italica, greco-attica) medie (danese) e piccole (bretone), penisole che favoriscono la speciazione di caratteri locali poiché aperte (e nel caso iberico-Pirenei ed italico-Alpi neanche così “aperte”) solo da un lato. A ciò si aggiungono varie isole maggiori e minori. Ha poi fiumi relativamente grandi tutti di linea verticale (Senna, Mosa, Reno, Weser, Elba, Oder, Vistola, Neumas, Divina a nord, Dnester, Dnper, Don, Volga, Ural a sud est), una linea diagonale composta da Reno e Danubio che la divide in due più o meno su quello che era il limes dell’impero romano e, di nuovo, una seconda (Vistola, Dnester) che la divide da quell’est che diventa un po’ più asiatico.
Poi ci sono le catene montuose, gli stretti e vari mari su cui c’è affaccio, incluso l’Atlantico. Climaticamente, dai deserti spagnoli di famiglia nordafricana, ai ghiacci norvegesi ed islandesi di famiglia polare, c’è altrettanto varietà. Tutto ciò a dire che l’Europa ha una geografia fatta apposta per creare speciazioni, un gran numero di popolazioni con un più o meno pronunciato grado di differenza. Sarà poi la storia a dirci quanto differenti e quanto sovrapposte, stante che la geografia ne ha certo segnato i limiti di espressione.
2. Questa “propensione” europea alla speciazione, ha generato sia il primo spazio storico in cui si è formato lo Stato-nazione, che la più ampia collezione di Stati-nazione del mondo per territorio. Stato (istituzione) e nazione (popolo) sono due enti che si tende a far coincidere nel dibattito pubblico, ma così come il primo nucleo di molte nazioni europee data al IX-X secolo cioè molto prima che diventassero “Stato”, così si può immaginare uno Stato fatto di più “nazioni”, come più spesso è capitato fuori Europa. Considerando che dal punto di vista geografico per Europa s’intende anche la Russia al di qua degli Urali e considerando l’estensione territoriale che è più o meno pari per USA, Cina ed Europa, nei primi due casi abbiamo un solo Stato, nel terzo quarantacinque più quattro.
Dopo la lunga fase medioevale che subentrò al collasso dell’Impero romano, a partire dal XIV secolo e fino al XVI secolo, si formarono in sequenza i più o meno attuali stati di: Svizzera, Francia, Inghilterra (solo molto dopo Gran Bretagna (1707) e poi Regno Unito (1801)), Portogallo e Spagna, non a caso stati della parte geografica europea più certa, quella nord-occidentale. Gli Stati-nazione europei nacquero non per esigenze interne ma per esigenze esterne, belliche per la precisione[1]. Gli svizzeri per difendersi dagli Asburgo[2], i francesi e gli inglesi l’un contro l’altro alla fine della Guerra dei cent’anni, la Spagna contro i musulmani che avevano invaso l’Iberia sin dal ’700, il Portogallo per differenziarsi dalla Spagna. Le vicende che porteranno agli Stati nazionali anche fuori di questa parte dell’Europa occidentale sono molto complesse e durano almeno fino al 1861 per l’Italia ed il 1870 per la Germania.
L’Europa dell’est, tra il 1917 ed il 1993, ha registrato nove cambi di confine e quattro diversi sistemi ordinativi (impero, indipendenza, periferie dell’URSS, autonomia). Anche Norvegia (1905) e Finlandia (1917) sono nazioni giovani. La decomposizione sovietica ed jugoslava, la separazione dei cechi e degli slovacchi ed il timore si esprimano nuovi diritti di nazionalità (fiamminghi-valloni, scozzesi, catalani) dicono di quanto rimanga inquieta la geografia politica europea. Ma se ai primi del Novecento, quando si chiude gran parte del processo di formazione stato-nazionale europeo, il mondo contava 1.5 miliardi di persone, oggi siamo 7.5 miliardi, tra trenta anni saremo 10 miliardi. Cambia quindi radicalmente il contesto in cui continua a svolgersi il nastro storico europeo.
3. Non diversamente dalle vicende storico-politiche, l’Europa è segnata da una grande varietà culturale. Quattro sono gli alfabeti usati e quattro anche i principali ceppi linguistici (lingue romanze, germaniche, slave, baltiche) mentre le prime 10 lingue (di cui una è il turco) coprono solo 2/3 di quelle parlate, per non parlare dei dialetti a volte non intellegibili neanche dagli stessi connazionali. Quattro anche le principali religioni (cattolica, ortodossa, protestante, islamica) ma molte di più le chiese nazionali (ad esempio anglicana, irlandese, greca, romana, ecc.). Diversissimi gli stili di vita tra nord-sud-est-ovest, la cultura alta come quella bassa, i miti, le tradizioni ed i valori fondativi ed irrinunciabili. Naturalmente questa sottolineatura di diversità vale solo se rimaniamo chiusi dentro il sistema europeo, se preso complessivamente in quanto tale certo mostra maggiore omogeneità interna di quanto non abbia con sistemi arabi o asiatici o africani. Al tempo della guerra civile che portò all’unificazione americana e stante che in termini di “nazione” gli americani erano già potenzialmente tali (etnicamente, linguisticamente, religiosamente), questi erano 32 milioni e saldarono le loro fratture con 600.000 morti. Oggi Europa dell’Unione conta 500 milioni di abitanti e quella dell’euro 330 milioni. L’espressione “Stati Uniti d’Europa” perciò è da intendere soltanto come vaga analogia, nulla del materiale umano, sociale e culturale eventualmente da unire in Europa mostra similitudini con l’esperienza americana, né per quantità, né per qualità, né per contesto storico e geografico.
4. L’intera storia europea, dal confronto impero romano vs. migrazioni dell’est al triangolo merovingi-longobardi-papato, da Carlo Magno alla Reconquista e la Guerra dei cent’anni, da Carlo V alle guerre di religione, dall’impero austro-ungarico alle guerre per l’egemonia dei mercati tra Inghilterra e province unite, da Napoleone a Bismarck, fino alle due mondiali e quindi incluso Hitler, ha registrato una “costante del conflitto”, guerre geopolitiche per quanto spesso vestite da più barocche ragioni ideologiche[3]. Va infatti da sé che in una spazio fisico limitato ritagliato in un gran numero di sovranità ben distinte e rimarcate da differenze storico-culturali di lunga durata, la crescita demografica o l’adozione di certi modi di vita (un certo tipo di modo economico, un forte ruolo della credenza religiosa) accendono dinamiche amico-nemico che mettono i reciproci confini in tensione. Il periodo di relativa pace (1815-1914) detto Pax Britannica invero si basò su un meccanismo per il quale le tensioni e le competizioni interne al subcontinente vennero sfogate all’esterno con la grande stagione coloniale che per altro era già partita nel XVI secolo. C’è quindi da aggiungere, che proprio all’indomani della seconda guerra mondiale, il sistema Europa comincia a perdere la sua egemonia sul mondo, le contraddizioni interne conclamate nei due rovinosi conflitti non potranno più esser gestite scaricandole all’esterno e forse, proprio visti i due conflitti e le condizioni di contorno al mondo nuovo che nel frattempo si è venuto a creare, neanche più all’interno. Ciononostante, l’attuale configurazione stato-nazionale citata ovvero i 45 più quattro, è la più frammentata probabilmente dai tempi dell’Alto medioevo. L’Europa conta il 25% degli Stati del mondo, pur occupando meno del 7% delle terre emerse, con il 10% della popolazione mondiale (inclusi i russi). Se quindi Europa è una definizione geografica complessivamente unitaria sebbene aperta e molto frazionata, quella storica è decisamente plurale. Questa pluralità, financo la perdurante coazione al conflitto, è stato motore di varietà e ricchezza poiché molte varietà in interrelazione fanno sempre “sistema complesso”.
Uniamo gli europei!
5. La situazione di conflitto endemico che ha caratterizzato la storia d’Europa mosse ripetutamente alcuni pensatori a trovare il meccanismo di disattivazione di questa coazione. Due le strade principali percorse. Una, quella kantiana, vedeva soluzione in una alleanza militare che – mettendo assieme il principale strumento della guerra, cioè gli eserciti – impedisse di fatto l’espressione della coazione[4]. L’altra, quella di più ampia tradizione illuminista, infine giunta al Manifesto di Ventotene, pensò necessario superare la partizione stato-nazionale quale s’era formata nella geo-storia riportando il conflitto degli interessi locali a comporsi in un nuovo super-Stato con un superiore interesse generale. Va detto che tutto il poi non così largo spettro delle trattazioni che affrontarono questo problema non andò mai oltre un approccio tra quello che oggi chiameremo un pamphlet e il libero corso di una immaginazione utopica. In queste tanto rare quanto disparate trattazioni, non abbiamo un Capitale o una Ricchezza delle nazioni, nel senso che nessuno pare si sia peritato di affrontare, pur a livello di pensiero, i tanti e complessi problemi connessi all’idea di una unità di sistema a più alto livello degli europei o di una loro cooperazione a fini superiori. Evocare una vaga idea è una cosa, scendere nel dettaglio del volgare mondo del possibile con fini, tempi e condizioni particolari, un altro. Infine, da Kant a Spinelli, il movimento del pensiero è scaturito per lo più dal problema guerra e comunque sempre muovendo da ragioni interne all’Europa: la sua divisione, la sua conflittualità, il suo ottuso particolarismo. Lo Stato-nazione invece, come abbiamo visto, ebbe sempre i natali in una causa di competizione esterna. Mentre le sollecitazioni interne ad un sistema rimangono pur sempre opzionali, dilazionabili, oggetto delle buona volontà, le sollecitazioni esterne, quelle che ci pongono altri, non completamente da noi gestibili, richiedono un adeguamento imperativo. È questo motore esterno a permettere sullo slancio di superare le tante difficoltà e contraddizioni che si incontrano nel mutamento strutturale.
6. Nel dopoguerra del secolo scorso, si interpretò il problema europeo come mosso dal conflitto economico. In effetti si fece di necessità virtù nel senso che le nazioni europee, uscite dilaniate dal conflitto, dovevano ricostruirsi e questo movimento si pensò necessario ingabbiarlo entro accordi e trattati che regolamentassero la competizione onde non farla di nuovo sfociare in guerra di tutti contro tutti. Era tra l’altro proprietà del sistema “mercato” tendere al superamento dello stretto confine nazionale e quindi si pensò essere questa virtù la via per superare la necessità di evitare un nuovo conflitto. Ma si deve anche notare che questa situazione, per la prima volta, si colloca entro uno scenario non più eurocentrico. Per la prima volta nella sua storia, “Europa” si trova condizionata da una doppia supervisione di controllo e disputa. Eliminato assieme il fenomeno emergente del nazi-fascismo, due giocatori parzialmente esterni al comune europeo, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, avevano non solo forte interesse ma anche forte capacità di imporre i propri interessi, per altro divergenti, alla libera formazione delle dinamiche interne al subcontinente. In più, come detto, gli europei perdevano gradatamente la propria proiezione esterna e venivano viepiù confinati dentro i precisi limiti della loro posizione geografica. USA e URSS non solo limitavano e controllavano gli eventi su quello che per loro era lo scacchiere europeo ovvero il piano di gioco tra loro ma, partendo da questo, ridisegnavano il gioco-mondo andandosi a spartire le più ampie regioni del tavolo-mondo. In maniera molto più soft di quanto non era accaduto ai popoli colonizzati dagli europei, gli stessi europei di ritrovarono per la prima volta oggetto delle altrui cure interessate a condizionarne la sovranità. Le singole nazioni europee si trovarono così in dovere di schierarsi con gli uni o con gli altri ed al loro interno si replicò la divisione sfruttando l’oggettiva divisione tra le classi essendo il gioco a due poli interpretato da due opposte incarnazioni ideologiche basate su due modi opposti di intendere la vita associata.
7. Gli ultimi cinquanta anni d’Europa vedono due dinamiche importanti. Gli europei, supervisionati dagli interessati americani (coadiuvati dai britannici sempre diffidenti verso il per loro minaccioso continente dirimpetto dal quale avevano deciso di alienarsi sin dal XV secolo), sviluppano un mercato comune accompagnato da due diverse versioni di “serpente monetario”[5], poi una serie di istituzioni comuni per quanto deboli, poi una moneta che legò 17 (poi 19) di loro non a fare qualcosa assieme ma a non farla. La moneta, la valuta, elemento essenziale di una politica economica nazionale ed elemento storicamente determinante della sovranità, veniva congelata in un trattato che delegava un istituto ritenuto tecnico (la banca centrale) ad amministrarla secondo parametri imposti soprattutto dalla nazione che si riteneva la più necessaria per domare la coazione competitiva continentale: la Germania. Il patto fu obbligare la Germania a far qualcosa assieme agli altri in modo da non ritrovarsela contro in una delle mille tenzoni europee offrendogli la rinuncia alla svalutazione competitiva (potenziale miccia di più ampio conflitto) e fu ulteriormente pagato accettando le condizioni tedesche riguardo il come intendere ruolo e gestione della moneta comune. In più, si era già accettata anche la riunificazione tedesca che andava formando il di gran lunga più grande Stato (oggi circa 83 milioni) in un’area di medio-micro Stati. La posizione ideologica tedesca sull’economia e la moneta venne ampiamente condivisa dalle élite finanziarie europee e da molta parte di quelle economiche di tutti gli altri Stati-nazione. Il tutto, avvenne dentro una congiuntura economica positiva (o che si riteneva tale) e sotto il benevolo giudizio del supervisore americano, lo Stato multietnico in cui la prima etnia è quella germanica.
La seconda dinamica, fu il lento sgretolarsi endogeno del sistema avversario degli americani ovvero l’Unione sovietica. La sequenza Muro di Berlino (1989), riunificazione tedesca (1990), fine dell’URSS (1991), Trattato di Maastricht (1992), euro (1999-2002), liberava il territorio europeo dalle tensioni delle guerra fredda, portava l’Europa occidentale a riunirsi con quella orientale (una “ri-unione” inedita nel senso che storicamente non c’è una grande storia comune tra queste due parti), sanciva la centralità tedesca come perno del sistema, definiva “sistema” un insieme di comuni interessi prettamente economici pur mantenendo la partizione stato-nazionale, poneva il sistema così ricostruito sotto la precisa egemonia ed indiretto controllo americano che sequestrava la sovranità militare (a parte la Francia). Il sistema europeo così costruito era il sogno realizzato di una delle due parti della storica contraddizione capitalistica, quella Stato-mercato. Il “mercato” dominava lo Stato e si serviva di questo sia per gestire le specifiche contraddizioni nazionali (governi nazionali), sia per gestire le contraddizioni dello stesso sistema europeo (governo europeo ovvero – di fatto – la riunione dei capi di Stato nel Consiglio europeo). In mezzo a queste due parziali e condizionate sovranità politiche, una pletora di istituzioni parziali formali ed informali, una voluminosa burocrazia, una complessa rete di norme, regole e libero gioco di interessi finalizzati a far ben funzionare le istituzioni di mercato, eliminando la gestione flessibile della moneta dallo stesso gioco.
Ereditata una tradizione forte di pluralità conflittuale, si è pensato non di dar retta al vecchio Kant che consigliava di mettere assieme gli eserciti così da non aver più lo strumento per farsi guerra ma di metter assieme i mercati e per alcuni anche la moneta. Il mercato avrebbe sciolto la tenace resistenza dello Stato (e della nazione) come se una istituzione la cui sopravvalutazione funzionale (tanto liberale che marxista) è cosa assai recente potesse magicamente ordinare fattori che hanno agito per più di due millenni. Del resto anche il papato medioevale era convinto che l’istituzione ecumenica della cristianità avrebbe potuto unificare il subcontinente, finendo travolto e costretto infine ad occuparsi di cose spirituali visto che il temporale risponde ai fatti duri e non alle ideologie. Ogni epoca s’abbaglia alla luce assoluta del suo ordinatore, prima quello militare (romani), poi quello religioso (medioevo), infine quello economico (modernità recente).
Effetti del mondo sull’Europa
8. A questo punto torna a rifarsi vivo l’esterno del sistema. Finanziariamente, il sistema-mondo giunge nel 2008-9 ad un collasso dovuto a quello che in geopolitica degli imperi si chiama “over-stretching”, né più né meno che espansione irrazionale delle funzioni, come nell’eccessiva riproduzione cellulare che chiamiamo “cancro”. Ogni sotto-sistema ha un suo ruolo i cui confini sono vincolati dal funzionamento e ruolo degli altri sotto-sistemi; quando eccede oltre questi confini funzionali, dopo una breve euforia di potenza, va incontro al collasso per eccessiva espansione funzionale. Economicamente, la globalizzazione giunge al suo picco funzionale nel 2008, arrestando da allora la crescita degli scambi internazionali. Potenti retroazioni negative quali la dipendenza tossica dal debito, il disordine migratorio, la scomparsa della crescita sostituita nell’orizzonte degli eventi da stagnazione e recessioni, segnalano che il meta-sistema ha terminato la sua funzione ordinante ed ora diventa disordinante. Le società occidentali accusano le retroazioni di questo meta-sistema andato oltre le sue possibilità funzionali: forte divaricazione sociale-reddituale, contrazione della classe stabilizzatrice (la media, nelle sue molteplici sfumature), blocco dell’ascensore sociale, Stato permanente di incertezza con outlook negativo (da cui anche la minor spesa di chi potrebbe permettersela), aumento del debito pubblico e privato contratto in attesa di una crescita ora soggetta al principio di scarsità, se non di sparizione. Un macromovimento di “grande convergenza” innalza le posizioni dei paesi di seconda o terza fascia mentre quelli della precedente prima fascia ristagnano. Il tutto si riflette sul piano politico occidentale con una progressiva delegittimazione delle élite (a vari livelli). Sul piano sociale comincia a farsi insostenibile l’incertezza, sul piano culturale mai la società occidentale è stata così desertificata ed infertile, sul piano demografico soprattutto gli europei ed i giapponesi sono diventati praticamente “sterili”. Sul piano sociale-culturale interessante quanto segnala per la prima volta il centro ricerche del Credit Suisse ovvero che tra i più preoccupanti rischi sistemici all’orizzonte si segnala una inedita “stanchezza del consumismo”[6].
9. Nel mentre gli europei stentano a rendersi conto che i tempi stanno profondamente e rapidamente cambiando: l’anno scorso i britannici defezionano dall’UE per riappropriarsi della completa sovranità nazionale, Trump con analogo disegno batte la Clinton alfiere di quello ormai irrecuperabilmente in crisi (globalismo finanziarizzato e militarizzato), Putin compie una serie di capolavori tattici per difendersi internamente ed esternamente dalla pressione americana riuscendo addirittura ad aumentare la sua sfera d’influenza, Xi Jinping accentra i poteri e sviluppa con la BRI[7] il più potente disegno strategico-mondo alternativo a quello americano, Modi tenta di governare ed indirizzare la crescita indiana ed annuncia un PIL superiore a quello del Regno Unito. A questo punto ed anche per altre pressioni non precedentemente enumerate (quelle migratorie ad esempio), gli europei capiscono che il loro modo di stare la mondo non è più adeguato alla realtà del mondo stesso, le negatività superano di molto le positività, tale condizione non è passeggera come ci si era irrazionalmente auto-convinti fosse dopo la crisi del 2008 reiterando la “religione del cargo” della “luce in fondo al tunnel”.
Il dramma principale è che il nuovo gioco di tutti i giochi del tavolo-mondo è ordinato dalla geopolitica ma Europa non è un soggetto geopolitico. La disordinata rincorsa a recuperare una soggettività geopolitica fugge in due direzioni opposte: 1) rinforzare l’unione politica e militare; 2) tornare a recuperare la piena soggettività stato-nazionale. Ma sarebbe fin troppo positivo interpretare queste due risposte come reazioni lucide alla domanda proveniente dall’esterno. In effetti, le due posizioni, sembrano più che altro rimbalzare come reazione a dinamiche ancora interne. La prima vuole proteggere la sua opera di mercato e moneta comune, la seconda vuole proteggere dai danni sociali inflitti da questa costruzione. Nessuna delle due in effetti sembra muovere da una comprensione razionale dell’inadeguatezza “storica” dell’essere Europa. Anche i più sfrenati unionisti (di cui si vedono tracce sempre più flebili) non credono davvero di unirsi in un super-Stato (a 27 o a 19) con tutte le leve di potenza coordinate a disposizione, mentre i sovranisti non vedono che i nemici più prossimi (gli unionisti) ma non quelli che si affacciano all’orizzonte: i grandi e potenti Stati extra-europei. Sfugge che lo Stato-nazione europeo è un sistema figlio della geostoria e data al XV-XIX secolo, quando il mondo era abitato da 500-1.300 mila esseri umani, quando Europa era un sistema semi-isolato e potevamo quindi dedicarci all’essere gli uni contro gli altri, non c’era lo sviluppo economico-sociale-tecnico che chiamiamo capitalismo (o era alle prime mosse), i limiti ambientali non erano in vista, gli europei erano larga parte del mondo e progressivamente superiori in molte performance decisive, tra cui quelle militari. Anche i pur brillantissimi antichi greci non s’avvidero del salto quantico della condizione del loro intorno-mondo e continuarono a litigarsi i reciproci egoismi di città-stato nel mentre iniziava l’era degli imperi. Infatti è così che termina una civiltà, per dis-adattamento alla condizione-mondo, quando rapiti dalle dinamiche interne, non ci si avvede di quelle esterne.
10. Questioni demografiche, geografiche, ambientali, storiche, economiche e culturali, sembrano convergere su un tavolo mondo a cui si siedono 200 Stati, ognuno in cerca delle proprie migliori condizioni di possibilità. Le dinamiche più importanti verranno determinate dalla megafauna intendendo con ciò gli stati che hanno più potenza (economica, finanziaria, militare, culturale, quindi politica). Con Cina, India, USA, Brasile, Giappone, Russia siamo sempre oltre i 100 milioni di popolazione[8]. La Germania che appartiene a questo gruppo ne ha 83, ma la Germania conta anche su una fitta rete di partner più o meno confinanti (Danimarca, Norvegia, Svezia, Polonia, Rep. Ceca, Austria, Olanda, Belgio, Lussemburgo)[9] che la rendono sistema più ampio della sua singola consistenza e sembra che stringere questa rete sia la più idonea traduzione dell’enigmatico “Europa a più velocità” recentemente pronunciato dalla Merkel. E comunque la Germania è molto lontana dall’essere una potenza militare, il che – in termini geopolitici – conta non poco. Inoltre, occorre vedere la dinamica, perché se il rank degli Stati-economie per PIL nominale ha subito un sovvertimento delle gerarchie nei soli ultimi dieci anni, già oggi quella del 2050 per PIL PPA vede spuntare all’ottavo posto i 250 milioni di indonesiani e non vede più europei tra i primi otto. Infine occorrerà vedere la dinamica d’area perché appartenere a sistemi crescenti come saranno l’Asia e l’Africa sarà ben più favorevole che non appartenere a sistemi statici o in contrazione, come sembra destinata ad essere l’Europa e più in generale l’Occidente.
L’elenco dei regolamenti di gioco che queste potenze dovranno contrattare formalmente o informalmente, cooperando o competendo, parlandosi o minacciandosi, va dai regolamenti ambientali alle sfere d’influenza geopolitica e geo-economica, dall’architettura banco-finanziaria – che nella sua struttura dollaro-FMI-Banca Mondiale-BIS verrà ovviamente ridefinita visto che ormai siamo a più di settanta anni da Bretton Woods – alle nuove alleanze commerciali o militari a geometrie variabili. Gli europei già da tempo contano poco o nulla e più che altro come “foederati” dell’impero informale americano ma ora non solo gli stessi americani ed i britannici hanno annunciato la nuova politica del “mani libere” ma non è detto che non comincino a vedere nell’Europa una preda da dividersi per costruirsi una loro più formale periferia protettiva.
Conclusioni
Siamo in un momento frastornante in cui veniamo strapazzati da eventi a ripetizione, eventi complessi, inediti e spesso fuori scala. Molti pur tra i sensibili, ovvero coloro che cercano di farsi una mappa del mondo, sono e sempre verranno magnetizzati da Trump, dall’euro, da Putin, dalla sequenza Olanda-Francia-Germania e da qualche parte anche Italia delle elezioni nazionali del 2017. Il 25 marzo, al sessantesimo dal Trattato di Roma, vedremo se si tratterà solo del trionfo dell’inutile retorica o se le annunciate mosse della Merkel su un nuovo disegno di Europa asimmetrica (sostanzialmente la libertà per la Germania di procedere per conto proprio e “chi la ama la segua”) annunceranno una nuova fase e di che tipo. Quello che però occorre forse inquadrare meglio è il momento nel flusso storico, uscire dall’esasperato presentismo in cui cerchiamo di non annegare saturandoci di informazione che ci forma a suo piacimento facendoci sapere tutto ma comprendere quasi niente. Occorrerebbe recuperare sguardo di prospettiva e capire cosa dovremmo fare nei prossimi trenta anni, nulla di ciò che compone e condiziona la nostra vita si è formato ieri, nulla di ciò che possiamo fare per darci nuove condizioni di possibilità si fa domani anche se comincia domani.
La Geuropa (l’Europa germanica) non è una prospettiva auspicabile ma per fortuna non è neanche praticabile, il che non vuol dire che i tedeschi ed i loro alleati nelle varie élite nazionali non cercheranno di perseguirla ostinatamente. Non vorremmo abbandonarci allo sciocco determinismo del “non c’è due senza il tre” ma se la Germania che è stata l’ultimo grande Stato europeo a formarsi ha provato per ben due volte con effetti disastrosi a dilatare il proprio dominio, ciò forse vuol dire che lì ci sono una serie di questioni geo-storico-culturali irrisolte o quantomeno non tali da permettere all’entità tedesca di svolgere funzioni di leadership aggregante per egemonia e condivisione. Stante comunque che Europa, con la sua storica e geografica tendenza alla insopprimibile pluralità, le sue pronunciate linee di faglia e di frattura, non è mai stata dominata da alcuno perché semplicemente non può esserlo. Di contro l’idea (non si comprende fondata su cos’altro se non un ormai insopportabile e del tutto inopportuno idealismo dei principi) di unire gli Stati-nazione europei nella figura mitica de “l’Europa dei popoli” democratica-solidale-ambientale e diritto-civilista: tutte ottime petizioni di principio che nulla dicono su come si vogliono affrontare i drammi adattivi all’era complessa ordinata dal conflitto geopolitico. Al mito dell’Europa del mercato, si oppone con tic dialettico l’Europa democratica, una disputa oziosa che forse sta in cielo ma non certo in terra. Semplicemente, Europa va trattata come un problema politico ed Europa non si può unificare politicamente tutta in una volta perché nulla della sua geografia, storia, cultura, tradizione, religione lo consente e solo chi insegue vaghi enti come il mercato e la moneta può soprassedere a queste tenaci “nervature dell’essere” – come le chiamava Platone – che il buon macellaio sa che non si possono tagliare. Senza intento polemico, segnalo che far discutere il “problema Europa” solo dagli economisti è come far discutere gli esperimenti del CERN dagli ingegneri che fanno funzionare l’acceleratore.
Ecco allora che l’europeo stordito ma non domato si ricorda con la passione poco lucida del mito di quando c’erano gli Stati keynesiani e sicurezza, benessere ed una certa approssimata maggior giustizia sociale (?) o quando la Nazione garantiva l’identità e la funzionalità della comunità, quando c’era il banchiere centrale e il massimo dell’esotismo etnico era il turista americano (bianco) a Trinità dei Monti. Ne fa una questione di ideologia economica o monetaria o religiosa o etno-culturale o di una politica quale si usava quasi un secolo fa. Gli Stati-nazione di taglia europea, ripetiamo ad nauseam, sono figli di dinamiche endogene europee del XV secolo, ancora più o meno valide fino al XIX secolo. Il XX non fa testo alcuno essendo diviso tra una parte di guerra totale ed una di ricostruzione o se lo fa dice che la convivenza tra le eterogenee frazioni d’Europa è tra il molto difficile e l’impossibile, tendenzialmente molto conflittuale. A grana grossa, le Europe sono almeno quattro[10]. Nulla delle condizioni del mondo che pongono tutte le pressioni fuori dal sistema Europa pongono le principali dinamiche ambientali, economiche, valutarie e finanziarie, culturali, religiosi, demografiche come “esogene” dovrebbero portare a ritenere possibile far sopravvivere la macedonia dei cinquanta staterelli europei. Ma se c’è chi si perde nelle ideologie, c’è anche chi rincorre i miti che poi sono ideologie di lunga durata.
Stretti tra l’impossibilità della Geuropa e della sua versione demo-utopica e l’insostenibilità del vessillo nazionale ottocentesco, forse dovremmo abbandonare per sempre sia il concetto di nazione, sia quello di unione e concentrarci su quello di Stato. Forse dovremmo coltivare l’aristotelico “giusto mezzo” e rivolgerci a progetti di nuovi Stati, a fondere tra loro alcuni vecchi Stati, non 27 o 19, di meno come si fa volendo incorporare tra loro diversi ingredienti. Unire popoli diversi è certo molto difficile ma se prendiamo germanici e latini, slavi e baltici da unire tutti in una volta, nel mentre americani, britannici, russi, arabi e cinesi certo non stanno lì a fare il tifo per te, più che difficile è impossibile. Di contro, anche il rifiutare e voler sciogliere l’attuale configurazione dell’unione mercatistica e della moneta neoliberista ha bisogno di un traguardo lontano perché dovrebbe esser in funzione di quello che si agisce nell’immediato.
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Al tavolo del grande gioco del mondo, chi scrive, vorrebbe veder un giorno sedersi lo Stato latino-mediterraneo (Stato, non unione), un progetto più volte da noi e non solo da noi promosso anche se il dibattito pubblico viaggia su tutt’altre frequenze. Sin da subito, l’Europa come sistema formato da diversi sistemi che ora sembra accettarsi nell’opzione “Europa a più velocità” potrebbe vedere la luce di una più stretta Unione dei latino-mediterranei che si potrebbero dotare in tempi altrettanto brevi di una propria moneta, gestita ben diversamente da come s’è stabilito nei trattati euro-tedeschi poi passati alla gestione della BCE. Questo è un orizzonte da vedere se utile e comunque a breve, quello a medio-lungo dovrebbe essere uno Stato ovviamente federale e parlamentare, con una sua Costituzione, esercito, istruzione e un suo welfare. Uno Stato terza economia del mondo, quinto per dimensioni demografiche, in grado di influire in tutti i giochi del mondo nuovo. Uno Stato la cui definizione linguistico-culturale-geografica (latino e mediterraneo) è garanzia di possibilità perché non si fa “Stato” che è “cosa politica” con chi parla[11] e vive troppo diversamente e da sempre abita dall’altra parte dello spazio geo-storico.
Il nuovo Stato di chi ha inventato la polis, la civitas, il Comune, la Repubblica, lo Stato-nazione moderno e non si rassegna a scomparire dai registri della Storia. Non ora, che la Storia annuncia di volerci passare al vaglio di un nuovo, difficile, esame.
Pubblicato sul blog dell’autore il 13 febbario 2017.
Note
[1] Le ragioni di difesa/offesa portavano con loro, ovviamente, anche le ragioni fiscali, entrambe centralizzate.
[2] In effetti, con la pace di Basilea del 1499, gli svizzeri non crearono uno Stato ma una confederazione, termine poi rimasto ancor oggi in uso, sebbene dal 1848, la Svizzera sia uno Stato federale.
[3] Lo stesso concetto di “nazionalismo” è da leggere in questa ottica, tanto quanto è geopolitico lo scontro tra sauditi ed iranici sebbene vestito da scontro di religione sciiti vs. sunniti. Al nazionalismo si può ricorrere per guerre di indipendenza, per compattare lo spirito nazionale spesso per segnare una distinzione con qualche confinante o ad uso del potere di certe élite, come retorica di condimento a guerre d’aggressione che hanno però altre cause scatenanti. La storia europea mostra nazioni che non hanno espresso un nazionalismo e nazionalismi innocui come quello dei greci. L’intero concetto è molto sfocato ed usato con troppa disinvoltura da una parte ed eccessiva paranoia dall’altra, nell’attuale dibattito pubblico.
[4] L’idea kantiana è stata chiamata a supportare una presunta tradizione del pensiero unionista federativo ma Kant non ha mai parlato di federazione ma di confederazione. Una confederazione non è altro che una alleanza, in genere militare. Usare i due pamphlet di Kant per dar tradizione al progetto di Europa unita è altamente improprio, forse leggere ciò che si cita aiuterebbe a tornare a quelle idee “chiare e distinte” di cui oggi si sente grande mancanza.
[5] Il serpente, con le sue da 100 a più di 500 vertebre, è l’idealtipo di un sistema a coordinamento flessibile. Lo SME ebbe due versioni, l’ERM1 dal 1971 con possibilità di svalutazione +/- 2,25%, l’ERM2 dal 1979 con banda di oscillazione portata al +/- 15%. Il sistema ha lasciato il passo al sistema euro nel 1999.
[6] Il “consumismo” è una forma di intensificazione sistemica, prodottasi dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Inizialmente supportato da una vasta e reale innovazione di prodotto industriale che riciclava la precedente potenza produttiva bellica americana, ha poi preso le forme di una vera e propria scienza della vendita (marketing, pubblicità e diffusione dei media di massa), per poi passare alla morte programmata di prodotti altresì potenzialmente molto più longevi (obsolescenza programmata), ai cicli di modesta creazione necessitanti precedente distruzione ovvero le “mode”, al debito al consumo, all’usa e getta. In breve, sembra che dalla fine degli anni ’60 in poi, si sia strizzata la sola capacità di assorbimento dell’offerta fino al punto di non saper più cosa altro inventarsi. La reale innovazione di prodotto è andata invero degradandosi, la televisione a colori è una novità di prodotto ma è degli anni ’60, da allora la si è fatta più grande, più piccola, piatta, portatile, stereo surround, home theatre, si è provato pure a riciclare il 3D che era innovazione (debole) degli anni ’50 ma queste sono solo innovazioni di sostituzione (intensificazione dei tempi nel ciclo di consumo) non di prodotto. L’unica consistente innovazione è stato il digitale-informatico ma non regge da sola il confronto con l’onda elettro-chimico-meccanica dei primi ‘900 e con quella industriale-largo consumo del dopoguerra.
[7] BRI (Belt and Road Initiative) prende il posto del precedente acronimo One Belt One Road – OBOR, in sostanza, le due Vie della Seta, mare e terra.
[8] Questo “temerario” studio PWC (previsioni a trent’anni all’interno delle vivaci dinamiche di riconfigurazione del mondo attuale non possono che esser definite “temerarie”), dice una cosa prima di ogni altra: le dimensioni demografiche conteranno sempre di più.
[9] Per tutti i paesi citati, la Germania è sempre il primo o il secondo partner per scambi commerciali.
[10] B. Amoroso (purtroppo di recente scomparso e col quale ho intrecciato opinioni proficuamente nel recente passato su questo argomento), le identificava così (qui). Io ne darei altra partizione (latino-mediterranea, del Nord, del Nord-Est e del Sud-Est) ma – più o meno – il discorso è lo stesso. La razionale di questa linea di pensiero è semplice: 1) Siamo obbligati per ragioni di contesto storico-mondiale a formare Stati (Stati non confederazioni, unioni, leghe o altre ambigue forme) più grandi di quelli ereditati dalla storia; 2) tali Stati dovranno essere probabilmente federali ma soprattutto democratici; 3) la democrazia presuppone una certa omogeneità del suo demo, omogeneità culturale, storica, linguistica. La logica per fare Stati non è uguale e neanche simile a quella utilizzabile per fare mercati o unioni monetarie sebbene risalendo la catena le monete debbono essere armoniche con il tipo di sistema economico che si ha e questo – fatalmente – avrà configurazioni più omogenee tra coloro che hanno una geo-storia simile.
[11] Uno Stato che almeno in tempi ragionevoli non parla una qualche forma di lingua comune non potrà mai essere democratico essendo il dialogo (logos tra due) l’essenza della democrazia.