La decisione delle autorità greche di rinunciare ai milioni di euro di Gucci per risparmiare al Partenone la volgarità di una sfilata di moda è l’ennesima manifestazione di una mentalità dura a morire, anche in Italia, e che vede il patrimonio culturale come un sacrario intoccabile, non come la risorsa viva che dovrebbe invece essere.
Nessuno dei paladini dell’onore perduto delle nostre rovine si accorge che il mondo è cambiato e che una nuova economia dell’immateriale si sta facendo largo. Gli studiosi francesi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre nel loro recente saggio “Enrichissement, une critique de la marchandise” descrivono chiaramente il fenomeno che sta caratterizzando questa fase del capitalismo in cui il valore della rappresentazione, quindi dell’arte, acquisisce un nuovo ruolo. Secondo gli autori del saggio, stiamo passando da un’economia industriale a un’economia dell’arricchimento. La sovraccapacità produttiva, di beni come di servizi, la grande quantità di merce in circolazione che ne riduce costantemente il valore, spingono il capitale verso un’economia che anziché produrre nuove cose valorizza quelle esistenti. In questa prospettiva l’opera d’arte e il bene culturale suscitano nuove forme di consumo di cui il turismo è il più evidente.
L’uomo contemporaneo, libero da ogni bisogno materiale e spesso sazio di lusso, ha ora bisogno di storie, di favola, di intrattenimento. L’arte e il patrimonio culturale soddisfano questa necessità. Questo fenomeno non si limita al caso classico del grande sito archeologico ma riguarda anche l’uso rappresentativo di un territorio, di un artigianato, di un immaginario o di un sapere tradizionale oppure percepito come tale che diventa marchio, come il paesaggio toscano, la birra belga, i formaggi francesi o il design italiano. Boltanski e Esquerre descrivono il caso sigificativo del villaggio francese di Laguiole che si è inventato una tradizione di coltelleria e ora vende in tutto il mondo un coltellino serramanico divenuto simbolo di vita agreste e di tradizione terragna.
In questa prospettiva superpotenze culturali come l’Italia o la Grecia hanno a loro disposizione una miniera inesauribile di narrazione capace di nutrire la nuova economia che non produce nulla di concreto ma sfrutta l’immaginario che suscita. Destinare un sito archeologico a questi usi, con le dovute cautele, non è una volgarità né un oltraggio alla memoria ma un’opportunità per garantirne la conservazione e diffonderne il prestigio così come la conoscenza. Mucchi di rovine chiuse in un recinto non servono a nessun uso e non sono conservabili in eterno. Come ha giustamente osservato il Ministro Franceschini parlando di Pompei, un sito così antico non si restaura una volta per tutte ma richiede un impegno costante di restauro. Questo diviene possibile solo se si fa del patrimonio una risorsa viva. Siti archeologici frequentati, che producono ricchezza per la popolazione locale, nutrono la vitalità di un territorio, oltre al turismo possono suscitare altre attività produttive collegate al sito e soprattutto creano consapevolezza della tradizione e della storia di cui questi siti sono l’espressione. La fecondità intellettuale e creativa che scaturisce dalla presenza di una tradizione artistica è anche ispiratrice di nuova invenzione nel campo dell’arte contemporanea, un altro fiorente mercato dell’immateriale.
Perfino i barbari di Daesh si sono accorti che il patrimonio culturale è una ricchezza da sfruttare. Le immagini satellitari delle distruzioni di Palmira oggi rivelano che archi e templi non sono stati distrutti ma semplicemente rimossi per essere probabilmente trafugati in qualche mercato clandestino. Le nuove cariatidi della commissione archeologica del Partenone con la loro ottusità rinunciano a un guadagno che avrebbe permesso alla Grecia altri restauri e altri interventi di valorizzazione del suo patrimonio.
Sorprende che proprio i greci, inventori del mito, non capiscano quanto l’uomo abbia bisogno di sentirsi raccontare una storia.