di Nicola Cucchi
Dal giorno dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca si susseguono proteste per strada dei tanti cittadini statunitensi che non si riconoscono nelle politiche del nuovo presidente. Nel contempo in Europa notiamo lo smarrimento dei leader europei al governo, che cercano di prendere le distanze dai tanti eccessi trumpiani, senza voler mettere in discussione la funzione protettiva dell’alleanza atlantica. In ogni caso gli equilibri euro-americani sembrano in procinto di mutare, con le nuove destre europee che sperano di crescere grazie alla spinta ultra-nazionalista che viene da oltreoceano.
Trump infatti, con protezionismo e blocchi dell’immigrazione, promette di riportare benessere e sicurezza sociale ai cittadini americani, senza troppe distinzioni tra arricchiti e impoveriti.
La domanda che vogliamo porci in questa fase è: un’America che dice di volersi chiudere che influenza politica può esercitare su un’Europa agitata da forti spinte disgregative.
Un presidente che dice di voler rompere accordi commerciali e ambientali, che impone un “Muslim ban” ai cittadini provenienti da alcuni paesi considerati a rischio, non può che rappresentare una sponda culturale e politica per le destre xenofobe ed euroscettiche; una situazione che sta mettendo in allarme i vertici europei.
In particolare, il discorso trumpiano rischia di imporre un duplice arretramento statunitense che promette una notevole alterazione degli equilibri esistenti: da un lato le posizioni che Trump ha assunto sulla NATO rischiano di mettere in discussione il ruolo protettivo svolto dagli USA rispetto alla minaccia di un’influenza russa. Mentre, dall’altro, la cultura che esprime rischia di mettere in discussione il ruolo prescrittivo svolto dagli Stati Uniti, che con molte contraddizioni si sono sempre presentati come difensori di diritti e democrazia nelle varie sedi internazionali. Tutto ciò, sommato allo shock della Brexit, rischia seriamente di spostare l’equilibrio a favore delle nuove destre europee, con due elezioni fondamentali alle porte come quelle di Francia e Germania.
L’indebolimento dell’egemonia statunitense
La preminenza novecentesca degli Stati Uniti nasce dal ruolo determinante svolto nelle due guerre mondiali, che li ha messi nella condizione di definire gli equilibri postbellici in Europa. Nel contempo il loro modello sociale ha esercitato un’influenza notevole sul vecchio continente.
Paradossalmente proprio quando con la caduta dell’URSS l’espansione americana sembrava inarrestabile, la globalizzazione ha aperto la strada a nuove potenze in ascesa, che nell’ultima fase hanno iniziato apertamente a minacciare il predominio statunitense. Con l’inizio del nuovo millennio gli shock del terrorismo internazionale e della crisi finanziaria del 2008 hanno indotto le amministrazioni USA in una spirale di errori strategici da cui fanno fatica a rialzarsi.
Per identificare questa fase ci sembra opportuno riprendere un’espressione di Federico Romero, che parla di solitudine americana. Alla perdita parziale della funzione stabilizzatrice corrisponde, a livello interno, una maggiore vulnerabilità rappresentata dalla crisi della classe media a cui la ripresa economica ha fatto fronte solo in parte. L’elezione di Obama associata a promesse di nuovi investimenti pubblici e maggiore garanzie sociali aveva ridato vitalità a un sogno americano di emancipazione, che con Trump è stato letteralmente ribaltato.
In realtà, come ha spiegato Arnaldo Testi, Trump e Obama sono due espressioni, di segno opposto, della crescente polarizzazione politica che si ripresenta quando le diseguaglianze sociali si dimostrano più pesanti. Sono due risposte differenti alla crescente marginalizzazione sociale dei ceti medi e alla perdita di primato degli USA a livello globale. Anzi a ben vedere la radicalità dell’elezione di Trump è una diretta conseguenza dell’elezione di Obama, una reazione di certi strati sociali alle aperture obamiane in termini di spesa pubblica. Insomma Trump è senza precedenti perché Barack Obama era senza precedenti, e questo non esclude un passo ulteriore in una direzione opposta all’attuale indirizzo iper nazionalista, ed è fondamentale tenere accesi i riflettori sulle proteste statunitensi.
Il ritorno del vangelo nazionalista e la crisi della sinistra
L’influenza statunitense non va insomma misurata soltanto in termini di equilibri di potenza, ma bisogna considerare anche la pressione esercitata dagli USA a livello culturale, in termini di soft power. Il rifiuto dell’interventismo, e la riaffermazione del protezionismo economico negano un principio fondamentale nell’espansione novecentesca dell’egemonia statunitense: gli Stati Uniti non devono occuparsi di espandere difesa dei diritti e democrazia nel mondo, senza che ciò si traduca in una scelta isolazionista.
Come spiega Mario Del Pero Trump non vuole rinunciare alle sfere d’influenza, né al predominio strategico, vuole semplicemente ridurre il significato morale di questa manifestazione di potenza. Tuttavia, negando il valore morale di questa espansione – “impero della libertà” – il ruolo dell’America statunitense si impone come puro potere, una sorta di nazionalismo depurato della retorica eccezionalista, vagamente messianica, perdendo così un fondamentale presupposto retorico.
“America first” viene declinata come America che si chiude, “per pensare solo agli interessi americani”. Ed è in questa chiave che il discorso trumpiano viene ripreso e amplificato dalle nuove destre europee: al grido di America First, Marine Le Pen risponderà con “prima i francesi”, Salvini con “prima gli italiani” e così via.
La scelta di investimento politico-identitario sulla difesa dei confini impone di dislocare gli “arricchiti parassiti” sempre fuori dalla comunità, per indurre un sentimento di unione basato sulla comune appartenenza territoriale, a prescindere che siano sfruttati o sfruttatori.
A prescindere dalla fattibilità o meno, la destra propone un modello sociale relativamente chiaro, con evidenti radici storiche: sicurezza sociale per i bianchi europei, chi non è integrato viene escluso. Peraltro la linea razziale tende a sovrapporsi a quella sociale, così mentre gli esclusi di oggi sono soprattutto gli stranieri tendenzialmente poveri, quelli di domani potrebbero essere poveri italiani.
Ora la questione è come deve porsi di fronte a questa ventata anti-establishment, esplicitamente razzista, con una forza che metta al centro i diritti e la giustizia sociale. Le sinistre europee finora non sono riuscite ad esprimere un programma di trasformazione altrettanto chiaro ed è per questo che l’alternativa politica di questi anni è stata drammaticamente tra i liberali responsabili (che hanno causato la crisi) e le destre radicali. Una situazione sempre più allarmante di fronte alla quale diventa sempre più necessaria una presa di posizione netta di difesa dallo sfruttamento, creando connessioni tra regioni, e tra etnie che in questo momento non si parlano.
Partendo dal presupposto che l’ascesa delle destre è stata favorita dai fallimenti del capitalismo selvaggio e dall’austerità economica, solo una dura lotta contro queste politiche può aprire spazi di democrazia e riconoscimento; solo una ribellione alle pratiche di inclusione differenziata può creare società coese, pur nelle differenze.
Trump da un lato rappresenta una sponda per le destre, ma dall’altro può generare un risveglio forte verso una ripresa del controllo della propria vita in pubblico, da parte di tanti esclusi. Il nostro futuro dipenderà dunque dalla nostra capacità di difendere i diritti acquisiti, allargando la sfera democratica ai tanti esclusi, riformulando le garanzie in chiave adeguata alle sfide poste dal sistema economico.
Pubblicato su sinistraineuropa.it il 9 febbraio 2017.