di Diego Marani
Oggi si dà la colpa ai media sociali se gli italiani hanno perduto l’uso della lingua madre. La questione è invece molto più complessa. Quel che stiamo perdendo è ben più che qualche congiuntivo ma la nostra intera cultura nazionale. Per colpa nostra, non di Twitter. In questi ultimi decenni, scuola, famiglia e mass-media in diversi modi hanno scalzato l’italiano e la cultura che esso esprimeva dalla sua posizione di primato e di prestigio nella nostra società. Negli anni delle grandi proteste sociali si è sparato a zero sulla cultura tradizionale e sulla lingua che la esprimeva senza però che una valida cultura alternativa prendesse mai il suo posto. Si abbatteva la tradizione codina ma con essa anche l’anima della nazione.
Nell’indifferenza generale, quasi con compiacimento la televisione diffondeva un italiano ignorante e intriso di pacione dialettalismo meridionale, come se non parlare la lingua nazionale fosse simpatico, moderno, progressista. Ma Il dialetto è altra cosa. Non è alternativo all’italiano, è la lingua della terra e della memoria: può svolgere un ruolo identitario e inclusivo prezioso in una società solo se rimane al suo posto. La scuola dal canto suo, con riforme sbagliate o fatte a metà, ha abbandonato il sistema dei licei e degli istituti tecnici anche qui disperdendo le prerogative degli uni e degli altri. Le scuole tecniche sono state svilite assieme alle professioni cui davano accesso, le stesse che oggi ci mancano così fortemente. Il liceo classico è divenuto un ibrido senz’anima, al punto che oggi ci si può iscrivere al liceo classico con indirizzo scientifico. Si sono abbandonati gli studi concettuali per puntare malamente sulla specialistica. Eppure è dimostrato che proprio il modello dello studio accademico fa dei nostri ricercatori quasi i migliori del mondo. Certo, quando se ne vanno dall’Italia.
Offuscata dalla foga utilitaristica, la famiglia ha chiuso il cerchio del dispregio della società italiana per la propria lingua e cultura misconoscendo l’autorità e la credibilità della scuola, in particolare degli insegnanti che cercano di mantenerne il rigore e che vengono ormai visti come intralci all’ottenimento del diploma. Il titolo di studio si è così ridotto a lasciapassare verso un mondo del lavoro che inevitabilmente non ne riconosce più il valore. Sono di questi giorni le statistiche dei picchi di assenteismo scolastico al sud, proprio dove si registrano i più alti voti di maturità. Molti ormai hanno perso la percezione del fatto che un parlare corretto, nel rispetto delle regole grammaticali, non è una questione di eleganza, ma incide sulla chiarezza del pensiero, perfino sui suoi contenuti, è una manifestazione di civismo e di rispetto di una società. Ai populismi e ai razzismi serve la lingua bassa dell’ignoranza. I loro concetti abietti non passano il filtro della lingua elevata.
Chi parla corretto è capace di astrazione, di ragionamento, di analisi della complessità, alla fine, di equilibrio. Tutte cose che vengono dai libri, che gli italiani non leggono più. E proprio perché non sanno la loro lingua gli italiani sono anche agli ultimi posti nella conoscenza delle lingue straniere. Poiché chi non ha solidità nella propria non è in grado si assimilare un’altra grammatica. Il degrado e l’abbandono della nostra lingua incide anche sul nostro status di nazione perché una lingua povera non produce cultura e subisce quella altrui. Così la nostra lingua e la nostra cultura che per secoli sono state un punto di riferimento in tutto il mondo occidentale oggi sono finite nelle mani di moderni trogloditi che abitano le rovine di una civiltà scomparsa a loro ormai sconosciuta.