Autore: Federico Maria Ferrara
Traduzione: Elisa Carrettoni dal testo originale in inglese.
IL CONTESTO
L’aumento delle pressioni migratorie sugli Stati membri dell’Unione minaccia la solidarietà europea dall’inizio del 2015. Il peggioramento delle condizioni in cui si trovano i rifugiati unitamente alle difficoltà riscontrate dai paesi che li accolgono hanno portato le istituzioni europee ad attuare una serie di misure volte ad agevolare i flussi di rifugiati verso l’Europa e a prevenire l’aggravamento delle tensioni. Tra queste, la misura più dibattuta è il meccanismo di ricollocazione di emergenza, noto come il sistema di quote per i rifugiati.
Nella primavera del 2015 l’acuirsi della crisi dei rifugiati ha spinto l’Unione a rivedere le proprie regole in materia di asilo, in particolare la Convenzione di Dublino relativa alla protezione internazionale. La prima azione in questa direzione è stata intrapresa nel mese di aprile del 2015 a seguito del naufragio di un barcone nel Mar Mediterraneo in cui persero la vita 800 persone, quando i ministri degli esteri e quelli degli interni congiuntamente approvarono un piano d’azione in dieci punti, e sottolinearono la necessità di considerare delle “opzioni per un meccanismo di ricollocazione d’emergenza”. Nel maggio dello stesso anno la Commissione europea ha avanzato la prima proposta concreta per utilizzare il provvedimento di emergenza, secondo quanto previsto dall’articolo 78(3) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, che riguarda tutti gli stati membri che si trovino ad affrontare un’emergenza. Questa proposta includeva il trasferimento di 40.000 persone da Italia e Grecia verso altri paesi dell’Ue, così come il trasferimento di altre 20.000 da paesi terzi ai Paesi membri. Nonostante la forte opposizione di diversi Stati membri, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker si è speso molto per trovare una soluzione per accogliere e riallocare i rifugiati all’interno dell’Ue, come attestato dal suo discorso sullo stato dell’Unione del 2015.
Dopo settimane di controversie, il 22 settembre 2015 i ministri degli interni degli Stati membri hanno approvato un piano biennale di ricollocamento di 120.000 rifugiati in tutto il continente (nonostante il voto contrario di Slovacchia, Ungheria, Romania e Repubblica Ceca). Tuttavia, l’attuazione del piano, già estremamente lenta, ha subito un ulteriore ritardo a seguito degli attacchi terroristici a Parigi nel novembre 2015, quando altri paesi tra cui la Polonia, assunsero posizioni contrarie all’immigrazione. Nel febbraio del 2016 l’UE ha cercato di arginare il flusso di profughi firmando un accordo di tre miliardi di euro con la Turchia, in cambio dell’impegno da parte di quest’ulitma a ridurre il flusso di rifugiati diretti all’interno dello spazio comunitario attraverso il controllo delle proprie frontiere. Tuttavia, nel corso dell’anno i progressi sono stati esigui e il piano di ricollocazione si è rivelato ben al di sotto delle aspettative, dato che a settembre del 2016 solo 5.651 dei richiedenti asilo presenti in Grecia e in Italia erano stati trasferiti in altri paesi europei. Uno scenario, questo, esacerbato anche dalle crescenti tensioni tra Bruxelles e Ankara, che rimettono in discussione la sostenibilità dell’accordo sull’immigrazione tra UE e Turchia.
LE FRATTURE POLITICHE
Per comprendere meglio questi sviluppi, è importante osservare le fratture internazionali che sono emerse a seguito della crisi migratoria. Da una parte, la maggiore spinta per l’adozione di un sistema di quote di rifugiati è arrivato dalla leadership tedesca nel settembre del 2015. In tal senso, la promessa del vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel di assicurare un posto nel suo Paese a 500.000 richiedenti asilo si è rivelata cruciale per superare la riluttanza iniziale della Francia e per costituire un gruppo coeso di paesi in materia di crisi dei rifugiati. Dall’altro, però, i paesi dell’Europa meridionale, Italia e Grecia in testa, hanno costantemente cercato di richiamare l’attenzione sulla necessità di realizzare questo piano. Entrambi gli stati hanno finito per assumere un atteggiamento conflittuale verso le istituzioni europee: di recente il ministro degli Interni greco Yannis Mouzalas si è lamentato per i ritardi riscontrati nell’applicazione del piano di ricollocazione, mentre l’ex primo ministro italiano Matteo Renzi è stato fortemente critico sul risultato del vertice di Bratislava del settembre 2016 che non ha fornito soluzioni al massiccio flusso migratorio verso l’Europa.
Un’altra fonte di conflitto è rappresentata dalla delicata situazione dei richiedenti asilo che tentano di raggiungere la Gran Bretagna attraverso il tunnel della Manica e che si ritrovano bloccati al confine con la Francia nel campo profughi conosciuto come “la Giungla” di Calais. Nell’agosto del 2015 Francia e Gran Bretagna hanno firmato un accordo volto a prevenire l’ingresso dei migranti irregolari attraverso il tunnel e a rafforzare i controlli della polizia su entrambi i confini. Da allora la gestione della Giungla è diventata un argomento sempre più delicato, dato il rimpallo di responsabilità tra le autorità francesi e quelle britanniche. Tuttavia, dopo il risultato del referendum sulla Brexit (l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue), Xavier Bertrand, il presidente della regione Hauts-de-France (dove si trova Calais), ha chiesto al governo britannico di avviare un processo di rinegoziazione.
Lo stesso Nicolas Sarkozy, preparando la propria candidatura (poi fallita) per il fronte repubblicano alle elezioni del 2017, ha chiesto al Regno Unito una maggiore assunzione di responsabilità e la costituzione di un hotspot per quei migranti diretti oltre la Manica. Nondimeno, nell’agosto del 2016 il governo britannico ha vinto la causa contro l’autorizzazione espressa da un tribunale britannico per l’immigrazione che concedeva l’ingresso a quattro rifugiati siriani residenti nella Giungla di Calais, evitando così il rischio di costituire un precedente giuridico in materia di trasferimento dei richiedenti asilo provenienti dalla Francia. La Giungla è stata successivamente sgomberata e smantellata nell’ottobre del 2016.
Infine, i maggiori problemi per la definizione di un programma migratorio propriamente europeo provengono dall’Europa dell’est, in particolare dai cosiddetti Quattro di Visegrád (V4): Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia. Il primo ministro slovacco Robert Fico si è opposto fin dall’inizio al piano di quote dell’UE arrivando perfino a intentare un’azione legale contro lo stesso, presso la Corte di Giustizia europea. Parlando in occasione del vertice di Bratislava, ha aggiunto che il sistema delle quote è “politicamente finito” e, insieme ad altri leader del V4, ha promosso il principio della “solidarietà flessibile”, secondo cui i paesi che non vogliono accogliere i migranti potrebbero contribuire alla politica migratoria dell’UE in altri modi, ad esempio finanziariamente, fornendo servizi e manodopera.
La posizione dell’Ungheria appare ancora più controversa. Il paese è stato fortemente criticato da altri Stati membri dell’UE, tra cui Lussemburgo e Austria e i Paesi nordici, per avere apertamente rifiutato di rispettare il principio della Convenzione di Dublino, secondo cui i rifugiati devono fare domanda d’asilo nel paese dell’Unione dove entrano per la prima volta. Dopo aver incassato il sostegno della Slovacchia nel ricorso giurisdizionale contro il meccanismo di ricollocazione, nel maggio del 2016 il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha annunciato un referendum sul sistema delle quote al fine di acquisire ulteriori poteri per opporsi al piano di riallocazione. Contro ogni aspettativa, l’affluenza al referendum del 2 ottobre è scesa ben al di sotto della soglia del 50% rendendo nulla la votazione. Orbán ha messo in chiaro che ignorerà la bassa affluenza alle urne, ma il risultato inaspettato del referendum potrebbe rilanciare nuovi progetti per una distribuzione più equa e sostenibile dei richiedenti asilo in Europa.
E ADESSO?
Per quanto incoraggiante possa apparire il risultato del referendum ungherese, le istituzioni europee restano molto caute sul rilancio del sistema di ricollocazione d’emergenza. Piuttosto, il risultato politico più probabile in un futuro prossimo sembra essere un ritorno allo status quo della Convenzione di Dublino, con il paradosso della Grecia che si ritroverebbe a fronteggiare il rientro dei richiedenti asilo provenienti da altri Stati membri dell’UE. È pertanto corretto sostenere che i capi di Stato europei stiano giocando un pericoloso “gioco del pollo”: mentre cercano di minimizzare sulla questione della quota nazionale di accoglienza dei profughi, rischiano in realtà di incappare in un disastro comune derivato dalla totale mancanza di gestione centralizzata del fenomeno.
Le incertezze tedesche in merito alla questione, anche connesse alle preoccupazioni di Angela Merkel in vista delle prossime elezioni, di certo non giovano. In questo contesto, è più probabile che si realizzi un nuovo accordo sovranazionale per il reinsediamento dei rifugiati a livello globale, piuttosto che a livello europeo. Del resto, Barack Obama di recente ha annunciato che una coalizione di 30 paesi guidata dagli Stati Uniti ha deciso congiuntamente di raddoppiare i luoghi di reinsediamento per i rifugiati, di incrementare l’aiuto umanitario per i rifugiati di 4,5 miliardi di dollari, di fornire istruzione ad un ulteriore milione di bambini rifugiati, ed infine di facilitare l’accesso al lavoro legale per altri milioni di adulti. Resta da vedere se e come il presidente eletto Donald Trump darà seguito a questo impegno.