Dietro la sigla Reverse Learning si cela in realtà una band composta da tre italiani che ha da qualche tempo “trovato casa stabile” ad Anversa, importante città delle Fiandre dalla vivace scena musicale. Pur non essendo professionisti, hanno unito i loro sforzi per dar vita al loro primo album dall’enigmatico titolo: Gambling in wonderland.
Il loro stile è un rock melodico con più di qualche venatura pop ed ascoltandolo, anche una sola volta, è facile riconoscere più di un’eco di celebri band del passato, di tutte le epoche, con una particolare passione per il progressive. Altro elemento abbastanza evidente è l’approccio “artigianale” col quale i tre membri del gruppo – Matteo Giovinazzi (voce e chitarra acustica), Guido Cammarota (basso e tastiere), entrambi originari di Roma e Fabio Poletto di Torino (chitarre elettriche) – hanno affrontato la produzione del disco e che, a mio avviso, gli ha fornito quel retrogusto di spontaneità che non guasta mai.
I testi, curati da Giovinazzi (che nel cantare tradisce un po’ il suo accento italiano, con le consonanti dure alla “scozzese”) spaziano dalle storie immaginarie al sogno, con un omaggio particolare a Kurt Cobain, compianto front man dei Nirvana, al quale è dedicata Raw Diamond. Quest’ultimo, oltre a essere verosimilmente l’episodio più riuscito, trovo che abbia alcuni versi veramente indovinati come quelli che descrivono la triste fine del citato cantante di Seattle, con espliciti riferimenti alla mitica copertina del disco Nevermind (He had a bullet he pretended was not true, his left hand picked the last string…and a dollar was sinking away and the child couldn’t swim anymore).
A childish story, invece, sembra scritta negli anni 70, una sorta di allegro pezzo medievale che sembra uscita “dalla penna” dei Caravan o dei Jethro Tull con un bell’assolo di tastiere di Cammarota al quale si sovrappone la chitarra volutamente affilata di Poletto, nella coda del brano. Da evidenziare anche una frizzante canzone intitolata Golkonda, dal piglio prevalentemente acustico, introdotta da una bass line in primo piano e presto seguita da suoni di archi “sintetici”, sullo sfondo, decisamente originali. Si tratta di una storia di re e di imperi che, pur non niminandolo mai, potrebbe riferirsi a Marco Polo.
Concludo citando la morbida ballata finale My birth che mi ricorda mutatis mutandis – nella parte accompagnata dal solo piano – alcune melodie di Automatic for the people dei R.E.M.. In sintesi si tratta di un buon album con tutte le qualità e i limiti tipici di un esordio totalmente indipendente. Presenta diversi spunti interessanti e ha il pregio di non annoiare mai, lasciando ben sperare sulla futura crescita del gruppo.