di Sergio Farris
Siamo alle solite. La Commissione europea ci rimprovera il fatto che, fra il disavanzo del bilancio pubblico programmato per il 2017 e quello che dovrebbe risultare dall’applicazione del fiscal compact, vi è uno scostamento significativo.
A dire il vero, fra la richiesta iniziale di una correzione pari a 16 miliardi, l’1,1% di PIL, risalente al 5 dicembre, e l’ultima di circa 4 miliardi, lo 0,3% del PIL, tenuto anche conto delle inevitabili spese per le interminabili calamità naturali che affliggono il centro Italia, un certo grado di “tolleranza” è stato concesso. Ma nell’attesa di constatare con quali misure il governo Gentiloni provvederà a colmare la suddetta differenza (la Commissione europea è orientata, come sempre, all’applicazione di nuovi tagli alla spesa pubblica), possiamo dire che, allo stato attuale dei fatti, non arriverà alcuna svolta politica che metta in agenda una revisione della costruzione economica e monetaria europea, fondata, come è ormai arcinoto, sull’idea ordoliberale della quale sono portatori e custodi i paesi del “centro” Europa.
In mancanza di qualunque svolta, più elementi depongono a favore dell’ipotesi che sia imminente, dopo un periodo di relativa “grazia”, un inasprimento dell’austerità.
Vale forse la pena di riassumere, ancora una volta, i vizi di fondo della richiamata costruzione europea, per provare a delineare le possibili conseguenze che potrebbero derivare da uno scenario che, fra l’anno in corso ed il prossimo, sarà di probabile mutamento.
La crisi dell’euro
Si è molto parlato, ultimamente, del tardivo intervento dello Stato, nella sua duplice veste di azionista entrante e di garante sulle emissioni di liquidità, per cercare di salvare il sistema bancario. Molto è stato detto, non senza ragione, circa le tare gestionali nel relativo settore, come le cointeressenze fra politica e vertici bancari che hanno dato luogo alla concessione di prestiti di favore, poi rivelatisi di difficile recupero.
Tuttavia, è anche vero che le esposizioni deteriorate nei bilanci delle banche italiane sono il lascito della lunga crisi economica.
Al che, bisogna ricordare l’eccesso di ottimismo con il quale le classi dirigenti, nazionali ed europee, avevano fatto affidamento sulle politiche di austerità quale soluzione della crisi finanziaria conclamatasi nel 2008. Perché tali politiche, specialmente nel contesto dell’eurozona, non potevano che sfociare in un’ingravescenza del problema.
La falla si è rivelata risiedere anzitutto nella struttura istituzionale della zona euro, che prevede l’indipendenza della Banca centrale europea e un’eccessiva disciplina fiscale, da applicare sempre e comunque. Abbiamo purtroppo constatato come lo strapotere dei mercati abbia potuto dispiegarsi con tutta la sua virulenza, fra il 2011 e il 2012, nell’area dell’euro. Il fatto che la moneta sia separata dagli Stati sovrani e la politica monetaria sia stata demandata a un’autorità sovranazionale formalmente indipendente (la BCE, la quale ha per missione statutaria un obiettivo di inflazione per l’intera eurozona), pone un qualsiasi Stato membro in una condizione di soggezione rispetto ai mercati finanziari. Abbiamo visto con quali difficoltà e rigidità da sormontare la BCE di Mario Draghi abbia potuto inaugurare, nella seconda metà del 2012, un piano di acquisti di titoli pubblici per contenere gli assalti speculativi sull’euro.
Inoltre, a ogni Stato membro è impedito il ricorso al finanziamento diretto da parte della banca centrale, per poter attuare all’occorrenza, tramite lo stimolo fiscale, politiche economiche di stabilizzazione (il che aiuta a spiegare l’insufficiente risultato del quantitative easing, lanciato dalla BCE nel marzo del 2015, nel perseguire l’obiettivo del rilancio economico dell’eurozona). Sfortunatamente, il motto di Draghi è sempre stato: espansione monetaria da parte della BCE e riforme strutturali (cioè diminuzione dei salari reali) da parte degli Stati. Esso sarebbe dovuto invece essere: espansione monetaria da parte della BCE e, nel contempo, espansione fiscale da parte degli Stati.
Dopo la Grande Recessione del 2008-09 è prevalso, per un breve periodo, un orientamento rivolto alla realizzazione di un dato stimolo fiscale per sostenere la domanda. Ma nel 2010 vi è stata una decisa sterzata verso il consolidamento fiscale, precipitando l’eurozona in una seconda recessione. Una micidiale miscela fatta dalla simultanea riduzione del debito, nel settore privato e nel settore pubblico: un disastro annunciato. Il consolidamento fiscale ha interessato soprattutto i paesi debitori, ovvero i paesi periferici della zona euro, dove i relativi settori finanziari si erano rivelati, all’impazzare della crisi, fortemente indebitati nei confronti degli omologhi settori finanziari dei paesi centrali. A tal punto, il sostegno finanziario attuato con risorse e garanzie pubbliche dispensate alle banche private dei paesi debitori affinché esse potessero ridurre la propria posizione debitoria verso le banche dei paesi centrali, ha condotto a un repentino innalzamento dei livelli del debito pubblico nei paesi periferici, rimasti esposti e poi presi di mira dalla speculazione, con il risultato di patire un notevole aumento della spesa per interessi.
Il sopravvento delle politiche di austerità, incentrate sulla riduzione forzata dei disavanzi pubblici nella convinzione che i paesi periferici avrebbero riguadagnato la fiducia dei mercati, ha in realtà avuto in questi paesi l’effetto di aumentare, anziché ridurre, il livello del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Sgombrato alla prova dei fatti il campo da teorie quali l’austerità accrescitiva, sono rimasti i danni: l’austerità applicata a più paesi nello stesso tempo, è stata inefficace e controproducente. Inefficace perché ha mancato l’intento dichiarato di ridurre i debiti pubblici; controproducente perché ha determinato, come nel caso dell’Italia che più qui ci interessa, un vistoso calo del PIL e, a seguire, fallimenti di imprese, investimenti non andati a buon fine e mancati rimborsi agli istituti di credito dei prestiti erogati in precedenza.
Che un aggiustamento delle rispettive posizioni creditorie e debitorie fra i paesi dell’area euro fosse inevitabile, è palese e riconosciuto. Ciò che sarebbe stato necessario fare, è però, affrontare la crisi dell’eurozona con politiche le quali avrebbero dovuto prevedere espansioni di bilancio nei paesi in avanzo (Germania in testa) in luogo di un aggiustamento asimmetrico che ha visto somministrare l’austerità a detrimento dei paesi periferici. In altre parole, i costi del riequilibrio sarebbero dovuti essere distribuiti equamente fra creditori e debitori, i quali portano eguali responsabilità per la crisi. A causa della priorità attribuita alle politiche di austerità, i paesi periferici dell’eurozona si trovano con una menomata capacità produttiva con la quale dovranno fare i conti, forse, per decenni.
La questione del riequilibrio intracomunitario, alla base delle politiche recessive imposte agli Stati debitori, non è dunque stata risolta. Vi è stato quindi un fallimento, da parte delle massime istituzioni europee e dei governi nazionali (primo fra tutti quello Tedesco, ma non senza la corresponsabilità degli altri, fra cui il nostro), nel non riconoscere l’interesse dell’Unione nel suo insieme. È prevalso l’interesse delle élite finanziarie dei paesi creditori, non contrastato da parte dei paesi debitori per via dell’interesse sostenuto dalle rispettive élite industriali, protese, queste ultime, a ricercare mediante l’austerità un abbattimento del costo del lavoro nei rispettivi paesi. Non è impossibile che prima o poi, se si vorrà salvare l’Unione monetaria, i paesi del centro Europa dovranno cedere davanti alla necessità di mutualizzare i costi dell’austerità posti a carico dei paesi periferici dell’Unione monetaria europea. Ma, come anticipato, la necessaria svolta politica non è assolutamente in vista.
Eccoci daccapo
Dunque, ciò di cui l’Italia necessita è, oltre alla prosecuzione di una politica monetaria che contenga la spesa per interessi sul debito, una politica fiscale espansiva, esattamente quella che i vigenti Trattati fiscali europei vietano. Fra il 2017 e il 2018, il tempo dei margini di flessibilità e dell’accomodamento monetario dovrebbe volgere al termine, lasciando l’Italia esposta da ambedue i fianchi.
Come ben sappiamo, bisognerebbe lasciar crescere per un certo numero di anni il deficit pubblico nominale oltre il famoso 3%, in modo da poter finanziare nuova spesa pubblica, soprattutto per investimenti, servizi e nuovi posti di lavoro. Sul piano interno, inoltre, affinché i benefici del ritorno alla crescita fossero diffusi, occorrerebbe lasciarsi alle spalle l’ossessione per la competitività (la quale non sta peraltro sortendo effetti entusiasmanti in termini di incremento delle esportazioni), tornando a relazioni industriali meno sbilanciate a favore delle imprese e assetti contrattuali in grado di restituire reddito ai lavoratori.
Fra il dire e il fare c’è però, di mezzo, il fiscal compact. Sappiamo che, per il blocco ordoliberale, il massimo custode dell’ordine austeritario, l’unica soluzione che potrebbe trarre l’Italia fuori dalle secche non è praticabile. Il percorso di “aggiustamento” dei nostri conti pubblici è segnato. L’avanzo primario dovrà salire dall’attuale 1,5% del PIL al 3,6% nel 2019, cioè 23 miliardi di riduzioni di spesa e/o nuove imposte, fra cui l’attivazione delle già previste “clausole di salvaguardia”. È facile immaginare che le suddette nuove misure avranno un impatto sfavorevole per la crescita, già asfittica. Ed è anche molto probabile che quando il Parlamento Europeo sarà chiamato, a giugno, a discutere dell’opportunità di tradurre al rango di direttiva il fiscal compact (avente ad oggi natura giuridica di trattato intergovernativo), il nostro paese, che ha già in Costituzione il pareggio di bilancio strutturale, non saprà cogliere l’occasione per mettere in seria discussione in vincoli di bilancio al quale soggiace.
La classe dirigente politica tedesca non farà che ribadire la sua linea strategica, da sempre basata sul divieto di qualsiasi mutualizzazione dei rischi e di eventuali esborsi finanziari. Secondo la filosofia tedesca, bisogna, in nome della competitività, continuare a infirmare il diritto del lavoro e ridurre le prestazioni di “welfare state”. Grazie alla competitività, sarebbe possibile agganciarsi al traino delle esportazioni tedesche, tanto meglio se magari la nuova amministrazione statunitense dovesse, nel mentre, dare atto al promesso piano di stimolo fiscale interno, lasciando magari cadere le dichiarate tentazioni protezionistiche.
Dal lato della politica monetaria, va anche ricordato che i falchi tedeschi non hanno mai sopportato il notevole allentamento praticato da Mario Draghi. Quindi, è possibile che a fine dicembre (la chiusura del quantitative easing era inizialmente prevista per marzo, ma lo stesso Draghi ha dichiarato che le attese di inflazione non sono tuttora compatibili con un indirizzo restrittivo di politica monetaria) i falchi eserciteranno pressioni affinché, complice anche l’asimmetrico andamento dell’inflazione fra i paesi della UE, giunga a termine il periodo di agevolazione monetaria, che, a causa di tassi d’interesse bassissimi o addirittura negativi, ha penalizzato la redditività del settore finanziario tedesco. È da tener presente che, frattanto, la Federal Reserve, magari anche nella prospettiva della suaccennata espansione fiscale, ha intrapreso il suo percorso di “normalizzazione” dei tassi di riferimento.
La politica di Renzi, durante gli anni di facilitazione monetaria, è stata profondamente errata. Mentre il penultimo presidente del Consiglio sprecava fiato in propagandistici proclami contro l’austerità impostaci dalla Germania e dal suo nucleo centroeuropeo (senza mai impostare, nemmeno sul piano teorico, una genuina controproposta che alleviasse il disagio dei meno fortunati), ingenti risorse sono state sprecate in interventi puntuali e poco o nulla efficaci dal punto di vista macroeconomico. Provvedimenti quali l’abolizione dell’IMU sull’immobile principale, il bonus di 80 euro, il “Jobs Act” e l’elargizione a pioggia di risorse alle imprese, non hanno sfiorato il nocciolo dei problemi del paese. Il nuovo capo dell’esecutivo, Gentiloni, dichiara che si continuerà con le riforme, che il lavoro di Renzi non va cancellato. Perciò, anch’egli vorrà dare alla propria azione di governo, un impronta votata ad assecondare gli interessi dei ceti possidenti. Ad invarianza del quadro normativo e istituzionale di livello comunitario, c’è da domandarsi come la classe politica nazionale al potere (qualunque sarà il governo in carica) potrà gestire la nuova stagione di inasprimento dell’austerità che ci attende senza toccare l’ordine di interessi attualmente costituito.
Mala tempora currunt.