La parola del giorno è sicuramente ‘bigly’. Donald Trump la ha utilizzata perfino nel suo discorso di insediamento, per dire una cosa grossa, grande. La versione ufficiale è che in realtà dica ‘big league’ utilizzando in senso figurativo un termine che potrebbe indicare qualcosa come Serie A. Gli interpreti francesi a Washington si lamentano perché non riescono a tradurre le espressioni di Trump nella loro lingua così precisa e razionale. Le altre parole del giorno sono ominous, nationalistic, patriotic, forceful, vale a dire minaccioso, nazionalistico, patriottico, potente e questa volta sono quelle utilizzate dai grandi giornali americani per definire il discorso di venerdì 20 gennaio. Partiamo dalla prima: chi si sente minacciato da Trump? A parte il radicalismo islamico, si direbbe la Germania. Angela Merkel ha preferito una mostra di Monet e non ha neanche ascoltato il presidente numero 45, mentre il suo vice Sigmar Gabriel ha intercettato nell’invocazione America First lanciata da The Donald i toni e gli argomenti del nazionalismo europeo degli anni ’20 che ha portato alla catastrofe della guerra mondiale. Per un tedesco, che tra l’altro quando canta il suo inno nazionale pronuncia le stesse parole (Deutschland Uber Alles) anche se riferite al suo paese, non è male. Gabriel è della SPD, il partner di centro-sinistra della democratica Merkel. Non è la prima volta che la sinistra europea vede in un presidente americano una minaccia di tipo nazista: negli anni 70 sugli striscioni delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam il nome di Nixon veniva scritto con la svastica al posto della x, fantastico effetto di un’amnesia totale sulla storia abbastanza recente (allora) dei rapporti tra America e Europa continentale.
Perché la Germania si sente minacciata? Ovviamente perché Trump le ha puntato il dito per le catastrofiche (parola sua) politiche sui migranti e per la previsione che altri paesi dopo la Gran Bretagna possano lasciare l’Unione. Probabilmente si sente minacciato anche il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, ma dopo i commenti scomposti fatti il giorno dopo l’elezione a novembre si è chiuso in uno sdegnato silenzio. Torniamo alla domanda: perché la Germania si sente minacciata? Diciamo meglio, non la Germania ma l’attuale governo tedesco? Perché a settembre ci sono le elezioni e sia la SPD, sia la CDU-CSU della Merkel vogliono giocarsi la carta della minaccia americana per prendere voti. Ci proveranno anche i partiti tradizionali francesi? Forse no. Giocarsi alle presidenziali la carta della minaccia americana vorrebbe dire nobilitare Marine Le Pen al rango di un presidente degli Stati Uniti d’America, per quanto detestato. Potrebbe essere un po’ pericoloso. In Europa sicuramente non si sente minacciata Theresa May, che in Trump può trovare solo un alleato nel suo cammino verso la hard Brexit. Deve solo stare attenta, ma lo sta già facendo, a non appiattirsi troppo su Trump. Per l’Italia del conte Gentiloni, The Donald potrebbe rivelarsi una risorsa preziosa, ma anche qui da non sbandierare, nella sua battaglia contro l’Europa a “due rigidità” (troppa sui decimali dei conti pubblici e troppo poca in materia di migranti). Anche la Spagna invece potrebbe sentirsi minacciata, sarebbe stata uno dei principali beneficiari della Transatlantic Trade & Investment Partnership, che con Trump è morta e sepolta. E poi è molto esposta in America Latina, a cui Trump guarda con diffidenza e ostilità. Ma perché andarsi a cercare guai mettendosi contro pregiudizialmente. Tutto sommato, a differenza di Berlino, Madrid non ha un primato europeo da difendere. Il panorama si completa con un Est europeo che si sente ovviamente minacciato per le strizzate d’occhio che il presidente Donald e lo zar Vladimir si scambiano in continuazione.
In questo quadro di ognuno per sé il grande assente è ovviamente l’Europa come soggetto politico, economico e anche militare. Nella visione della nuova presidenza americana, Putin e la May sono ‘smart’, svegli e intelligenti, la Merkel come abbiamo visto è catastrofica, gli altri sono potenziali candidati all’uscita. Siamo passati dalla visione di Obama a quella di Trump. Nella prima i governanti sono degli amministratori e dei regolatori, Bruxelles è l’interlocutore naturale di Washington. Nella seconda chi governa è un condottiero, la cui prima missione è riprendersi in nome del popolo il potere espropriato dalla burocrazia non eletta e inamovibile di Washington, di cui Bruxelles è la versione europea. Come se ne esce? Andandosi a cercare in Cina un nuovo lord protettore che sostituisca l’America e ci protegga da Putin? Il presidente cinese Xi ha provato a presentarsi al World Economic Forum di Davos come nuovo paladino della globalizzazione e del libero commercio, e la Merkel sembra tentata dall’idea. Anche qui, farsi affascinare dai cinesi è un’altra stramba tentazione dell’Europa degli anni ’70. Forse c’è un’altra strada, molto complicata. L’edificio europeo è stato costruito dai governi che hanno dato vita a un super governo che si chiama Commissione e sta a Bruxelles. Il Parlamento eletto dal popolo è arrivato molto dopo e non ha mai preso in mano il progetto di unificazione, lo ha lasciato ai trattati scritti dai governi. Ci vorrebbe un colossale travaso di poteri e competenze dalla Commissione non eletta al Parlamento eletto. La piramide del potere europeo andrebbe rovesciata e andrebbe affidata agli eletti la riscrittura dei trattati, cominciando da quello di Maastricht fino a quello di Lisbona. È l’unica, ma impervia strada per poter dire Europa First. Ma ci vorrebbero teste capaci di pensare in grande. Bigly, direbbe Trump.