di Maurizio Sgroi
Inverno gelido, quello del 2017, con la neve a bassa quota che, per analogia, corrisponde a certi estremi nei mercati valutari, come quelli registrati dalla sterlina negli ultimi giorni, quando la valuta britannica è passata dal minimo sul dollaro sotto 1,20 a uno dei massimi rialzi degli ultimi decenni sfiorando 1,24 l’indomani. Come se a una gelata seguisse la primavera nello spazio di ventiquattro ore.
Questa schizofrenia, che molti attribuiscono alle vicende della Brexit, sono la spia di un malessere profondo dell’economia britannica, che somiglia a quello che affligge il nostro clima, dove un eccesso di emissioni gassose calde, spiegano gli esperti, ha finito col corrompere la trama delle correnti sottomarine e creato nubi tossiche che impestano l’aria impedendone il ricircolo. E perciò correnti d’aria fredda e calda si scontrano, provocando cicloni, tempeste e nubifragi. Credere che la sterlina oscilli per entità così ampie solo perché la gentile signora May(be), come la chiama l’Economist, dice una cosa e poi un’altra, è come prestar fede al fatto che una singola fabbrica sia responsabile dell’inquinamento globale. Né più né meno. La situazione britannica è complicata non solo per com’è, ma per come andrà ad essere, a cominciare dal fatto che nessuno sa come andrà a chiudersi la partita con l’UE.
Alcune evidenze aiuteranno a mettere a fuoco. La prima ce la propone l’ufficio di statistica del Regno Unito, che ha rilasciato pochi giorni fa gli ultimi dati sulla bilancia commerciale. Il saldo negativo si è ampliato fino ad arrivare a un deficit di 4,2 miliardi, in peggioramento di 2,6 miliardi da ottobre, principalmente a causa dell’aumento dell’import pari a 3,3 miliardi, parzialmente compensato dall’aumento dell’export di 0,7 miliardi. La qual cosa lascia dedurre che la svalutazione della sterlina, notevole dal giugno ad oggi, non ha rilanciato l’export quanto sarebbe stato necessario per bilanciare i costi dell’import. Se allunghiamo l’osservazione al trimestre agosto-ottobre, vediamo che la situazione appare più equilibrata, con l’export cresciuto più dell’import. Dal che si può dedurre che la situazione dell’economia britannica è assai più complessa di quanto si possa pensare guardando ai dati del commercio, pure se rimane la sensazione che è difficile l’economia si bilanci solo agendo sul versante valutario.
Qualche spunto di riflessione in più lo trovo nell’outlook sul primo trimestre 2017 rilasciato da Saxo Bank. «Optare per una hard Brexit – scrive Christopher Dembik, capo delle macro analysis della banca – significa che il Regno Unito dovrà cambiare completamente la struttura della propria economia entro il 2019 che è un lasso di tempo molto breve. L’economia britannica si avvia alla sua più grande sfida dalla seconda guerra mondiale».
In sostanza, sottolinea il nostro analista, per riuscire la May, come una sorta di anti-Thatcher, dovrà invertire il paradigma imperante dagli anni ’80 nei paesi avanzati, ossia che il governo sia il problema. All’inizio del XXI secolo, al contrario, il governo diventa la soluzione. Un po’ come era negli anni ’20-30 del secolo scorso. Quindi un’economia assai più manovrata di quanto sia adesso, dovendo fare i conti, quest’anno, con un prevedibile aumento dell’inflazione, importata dal commercio estero, un mercato del lavoro incerto, e la questione saliente della competitività, che la svalutazione della sterlina non sembra incoraggiare più di tanto a causa della rigidità dei prezzi all’export.
Uno studio dell’ Office for Budget Responsibility, citato nell’analisi, stima che un calo dei prezzi relativi dell’1% conduce a un aumento appena dello 0,41% dell’export (al netto dei prodotti petroliferi) dopo tre mesi. Qual è la soluzione? “Il Regno Unito avrà bisogno di un ambizioso piani di re-industrializzazione se non riuscirà a raggiungere un accordo favorevole di partnership con l’Ue”. Dagli anni ’30 agli anni ’70. Il passo è brevissimo.
Pubblicato sul blog dell’autore il 18 gennaio 2017.