Un recente articolo del New York Times si unisce al coro di chi accusa le élites europee e le colte minoranze che si schierano contro i populismi di vivere nel loro astratto cosmopolitismo, distanti dalla realtà della gente comune. Da più parti si alzano sempre più forti le voci di chi trova nel populismo le sue ragioni ed è disposto a chiudere un occhio sulle sue tesi semplificatrici vedendo invece con simpatia il suo slancio verso l’autenticità delle nazioni, il recupero della tradizione e delle sacrosante ma sempre indefinibili radici.
Tutto questo in opposizione al globalismo multiculturale, additato perché non ha patria se non il proprio interesse, ovunque si trovi nel mondo. Se la critica può essere giusta, quando si riferisce ai magnati della finanza e all’establishment affaristico internazionale, rischia invece di essere demagogica quando è rivolta alle nuove generazioni di europei che hanno imparato la strada dell’estero e scoperto la relatività della loro come delle altrui culture.
Queste sono le generazioni forse più critiche nei confronti dei vecchi Stati, e certo più scomode per chi ha interesse che tutto rimanga come sempre in mano ai governi nazionali. Per le decine di migliaia di giovani cresciuti con Erasmus, la patria non è più un territorio chiuso dentro le sue frontiere, con una bandiera che ci sventola sopra, da difendere a prescindere e senza giudicare, bensì sempre più una patria di valori, di principi, di visione dell’uomo e della società. Una patria inconciliabile con chi invece prospera nella divisione e nella falsa contrapposizione di interessi, nella creazione di barriere e incomprensioni, nella fagocitazione di paure e nella caccia alle streghe.
Sempre, nella storia dell’Europa, i cosmopoliti sono stati i primi ad essere presi di mira dai totalitarismi. Se la Germania nazista si accanì contro gli ebrei, fu soprattutto perché la diaspora ebraica era cosmopolita e poliglotta. Sfuggiva all’appartenenza nazionale tedesca come a ogni altra, esprimeva una cultura che era ben più che una semplice fratellanza religiosa.
Allo stesso modo, oggi, esiste una classe sociale e politica europea che non si riconosce più in un’unica appartenenza nazionale, ma che per istruzione ed esperienza si può permettere di nutrirsi a diverse culture e di rivendicare una molteplice appartenenza. È la messa in pratica del principio machiavelliano del cosiddetto “ubi bono, ibi patria”, la capacità di vedere di ogni Paese grandezze e miserie. È la libertà di poter scegliere cosa prendere dell’uno e dell’altro. È veleno per i populisti, gli xenofobi, i nazionalisti e i fascisti d’ogni risma.
Rattrista e inquieta vedere che anche chi si rende conto del pericolo del populismo, cerchi la soluzione nell’accondiscendere alle paure che esso suscita e non nell’attaccare le radici che lo nutrono. Non dimentichiamo il senso delle parole: il populismo si rifà al popolo, non al cittadino, parla alla pancia, non alla testa della gente.
La ricetta per una società migliore non è la cacciata dei cosmopoliti o la loro emarginazione come casta di privilegiati, bensì proprio il contrario: la diffusione del cosmopolitismo. Che una maggioranza di cittadini europei siano addestrati alla capacità culturale, linguistica e professionale di una vita cosmopolita, che possano scoprire e conoscere le culture, la mentalità e il modo di vivere degli altri. Non perché ognuno si disperda in una vita nomade, priva di appartenenza e di responsabilità. Ma perché ognuno acquisisca l’esperienza dell’altrove per portarsi a casa quel che di buono vi impara, in un processo virtuoso di scambio e miglioramento reciproco. Solo così anche le ineffabili radici potranno ritrovare un senso come espressione di un’origine che però si dirama e si estende rendendo più solido quel che esprime. Proprio come fanno le radici.