di Maurizio Sgroi
Poiché tutto cambia, perché non dovrebbe cambiare anche la causa dell’inflazione, mi domando mentre scorro un agile paper della BIS (The globalisation of inflation: the growing importance of global value chains) dedicato proprio al grande mistero del cambiamento dei prezzi che appassiona le migliori intelligenze da quando l’inflazione è stata scoperta, o meglio, inventata.
Chi si appassiona di storia e teoria economica avrà di sicuro le sue idee, anche se le più popolari sono collegate alla vecchia teoria quantitativa della moneta, nelle sue varie e rinomate versioni, che pure così tanti critici ha collezionato nel corso dei decenni, secondo la quale, e banalizzo, l’inflazione dipende sostanzialmente dalla quantità della moneta. O per dirla con il celebre brocardo di Milton Friedman, l’inflazione è sempre un fatto monetario.
Senonché il mondo è cambiato parecchio da quando l’oro delle Americhe arrivò in Europa facendo saltare l’equilibrio secolare dei prezzi medievali ispirando, già nel XVI secolo, in nuce la teoria quantitativa. E soprattutto sono cambiati i metodi di produzione. La globalizzazione ha reso possibile che un bene viaggi attraverso diversi paesi prima di trovare la sua maturità di bene finale, e la teoria economia recente ha elaborato il modello delle global value chain per provare a descrivere con maggiore precisione gli andirivieni di queste merci che compongono il commercio internazionale. Una teoria che riscrive la storia del commercio internazionale, ma non solo. Minaccia pure di cambiare l’idea che ci siamo fatti sull’origine (e quindi i rimedi) dell’inflazione.
Nella rappresentazione che ne fanno gli autori del paper, Raphael Auer, Claudio Borio e Andrew Filardo, «la crescente interconnessione dell’economia internazionale nel corso degli ultimi decenni sta cambiando le dinamiche dell’inflazione». In particolare lo studio evidenzia come l’espansione delle global value chain (GVCs), definite come «il commercio transfrontaliero di beni e servizi intermedi» sia un canale importante attraverso il quale l’economia trasmette i suoi impulsi all’inflazione domestica. «In particolare – spiegano – documentiamo in che misura la crescita delle GVC spiega la correlazione empirica stabilita tra l’allentamento dell’economia globale e i tassi di inflazione nazionali, sia tra i paesi che nel corso del tempo».
L’idea è interessante perché di fatto implica il presupposto che il livello generale dei prezzi – ammesso che questo indice astratto abbia un senso – sia influenzato dall’andamento del commercio dei beni intermedi oltre che da quello dei beni finali, e quindi che la filigrana che unisce fra loro le economie, in un contesto globalizzato, sia assai più sottile di quanto si pensi. In tal senso, anche la rappresentazione contabile del commercio che fa la bilancia dei pagamenti rischia di essere assai rozza, seguendo questa impostazione.
In ogni caso, i risultati dello studio, spiegano ancora, supportano l’ipotesi che la GCV e la competizione diretta e indiretta fra le economie rendano l’inflazione domestica più sensibile all’output gap globale. Questo porta con sé una complicazione, che però riguarda le banche centrali, cui per legge è demandato l’obbligo di controllare l’inflazione. Come possono, queste entità, riuscire nel loro compito se l’inflazione non è più un fatto monetario, o almeno non esclusivamente?
Questo è il problema.
Pubblicato sul blog dell’autore il 12 gennaio 2017.