di Roberto Palea*
L’Accordo internazionale sul clima approvato a Parigi da 195 Stati il 12 dicembre 2015 (entrato in vigore il 4 novembre 2016) segna una netta discontinuità rispetto alle posizioni dei summit sul clima del passato per quanto riguarda, almeno, la diagnosi della situazione climatica e delle sue cause nonché gli impegni generali assunti.
Tuttavia, tra le tante insufficienze ed inadeguatezze dell’Accordo (che propone il rapido superamento dell’era dell’energia primaria derivante dalla combustione dei carburanti fossili e la completa decarbonizzazione dell’economia prima del 2050), c’è il rinvio al 2020 dell’operatività delle misure di riduzione delle emissioni di carbonio, in netta contraddizione con la dichiarata necessità «di intervenire con urgenza» per far fronte ad una situazione riconosciuta grave e pericolosa.
Già nel 2016 la situazione climatica mondiale si è ulteriormente aggravata:
– la NASA ha rilevato che il 2016 è stato l’anno più caldo di sempre;
– l’Organizzazione meteorologica mondiale ha accertato che, nel 2016, si è stabilmente superata la soglia delle 400 parti per milione di CO2 nell’atmosfera (livello più alto in 4 milioni di anni);
– gli eventi “estremi”, di origine climatica, quali alluvioni, siccità, incendi, uragani, hanno raggiunto gradi di intensità senza precedenti;
– in Antartide (Polo Sud), il ghiacciaio Thwaites, di acqua dolce, della superficie di 184.000 km quadrati, ha iniziato a erodersi velocemente, rendendo instabile anche il ghiaccio che ricopre pianure e colline più interne. Secondo l’opinione concorde di svariati gruppi di esperti, il rischio che si corre è che, in 10 anni, gli oceani aumentino il loro livello di qualche metro (da tre a cinque), per effetto dello scioglimento dei ghiacci di acqua dolce dell’Antartide.
Questi non sono che alcuni dei numerosi segnali negativi provenienti da scienziati, climatologi ed ambientalisti. Stiamo accumulando tragici ritardi: ci rimangono pochissimi anni per riportare sotto controllo la situazione climatica ed evitare di superare quella soglia di irreversibilità che porrebbe a rischio la sopravvivenza stessa del genere umano.
Oramai la situazione non è più soltanto urgente ma di attuale emergenza. Di qui la necessità di avanzare proposte praticabili subito, senza subordinarle a mutamenti istituzionali mondiali, assolutamente necessari, ma non realizzabili, nel breve periodo, data la situazione politica mondiale.
Dobbiamo, allora, partire da una semplice affermazione del climatologo James Hansen: «fino a che i carburanti fossili saranno più economici, continueranno a essere bruciati».
L’ONU dovrebbe dunque richiedere ai principali paesi inquinatori (Cina, India, Stati Uniti, Unione europea, Russia, Giappone, ecc.) di introdurre subito, nei loro ordinamenti interni, una tassa sulle emissioni di carbonio nell’atmosfera (carbon tax) di tale entità da non rendere più conveniente l’utilizzo dei carburanti fossili (carbonio, petrolio, gas), accelerando, in modo decisivo, lo switch dalle fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili.
L’aliquota da applicare nei vari paesi dovrebbe tener conto del contenuto di carbonio di ciascun carburante fossile, delle emissioni pro capite di ciascun paese, nonché delle accise sui consumi dei vari carburanti fossili ove già introdotte, unilateralmente, nei vari paesi, con differenti motivazioni.
Vi sono tra i paesi inquinatori grandi disparità di prezzo dei carburanti fossili e, quindi, volendo, enormi spazi di convergenza. Limitandomi ai prezzi della benzina, al litro, esso è di circa 0,60 $ in Russia; 0,66$ negli Stati Uniti; 1,30$ in India; 1,16$ in Giappone; 1,62$ in Italia e 1,80$ in Norvegia. Come si vede, vi sono tra i diversi paesi differenze da una a tre volte.
L’introduzione di una “carbon tax” nei principali paesi inquinatori produrrebbe per essi un gettito potenzialmente elevatissimo, da impiegare in opere di miglioramento ambientale, in investimenti tecnologici nella “green economy”, nel potenziamento del welfare o, semplicemente, nella riduzione della tassazione generale, ora realizzata con altre imposte che verrebbero, in parte, sostituite da un’imposta di consumo con finalità ecologiche, qual è la “carbon tax”.
Inoltre, il gettito della nuova tassa servirebbe a finanziare automaticamente il Green Climate Fund e, nell’eurozona, a rafforzare la dotazione del Piano Juncker, poiché l’eurozona dovrebbe agire come un’area unitaria.
Rimane, ineludibile, la proposta di costituzione di un’Organizzazione mondiale per l’ambiente, sovraordinata agli Stati aderenti all’Accordo sul clima di Parigi, da realizzare non appena le condizioni politiche internazionali la rendano possibile.
Non vi è dubbio che l’incognita della politica ambientalista del presidente Trump getti un’ombra sinistra sul quadro delineato. Peraltro, gli estesi interessi di molte industrie petrolifere americane nel settore delle energie rinnovabili e del risparmio energetico, la forza e la pervasività delle organizzazioni ambientaliste americane, la posizione ferma e netta di Stati e città (quali la California, New York, Los Angeles e Chicago) nonché di imprese d’avanguardia quali Google e Tesla, fanno sperare in una reazione della società americana tale da minimizzare i rischi di potenziali scelte avventuriste dell’Amministrazione Trump in campo climatico.
*Roberto Palea è membro del Consiglio direttivo e già presidente del Centro Studi sul Federalismo
Pubblicato sul sito del Centro Studi sul Federalismo il 9 gennaio 2017.