di Andrea Baranes
Scoppia un incendio. Per fortuna arrivano i pompieri. Che però si mettono a versare sempre più acqua in una piscina piena, mentre la casa a fianco sta bruciando.
A giugno 2016 la BCE lancia l’ennesimo piano per provare a rilanciare l’economia del vecchio continente. Visto che anni passati a “stampare soldi” tramite il quantitative easing non hanno dato i risultati sperati, ecco il passo ulteriore: con questi soldi acquistare non solo titoli di Stato, ma anche obbligazioni di imprese private. Corporate Europe Observatory (CEO), l’organizzazione che da anni studia e denuncia il peso delle lobby nelle decisioni europee, è andata a vedere quali siano le imprese e i settori che hanno beneficiato di tali acquisti. La ricerca appena pubblicata non lascia spazio a dubbi: «Il risultato è inquietante, a meno che non pensiate che petrolio, auto di lusso, champagne e gioco d’azzardo siano il posto migliore in cui mettere soldi pubblici».
In ultima analisi l’intervento della BCE è un sostegno ad alcune delle più grandi multinazionali. Le obbligazioni sono una forma di finanziamento, il cui costo segue la legge della domanda e dell’offerta: se sono in molti a volere i titoli di una determinata impresa, questa potrà offrire tassi di interesse minori. Se al contrario nessuno o quasi le vuole comprare, gli interessi che dovrà garantire l’impresa per finanziarsi salgono. Se la BCE interviene acquistando determinate obbligazioni, il soggetto corrispondente si trova quindi avvantaggiato rispetto ai concorrenti. Non parliamo di spiccioli. La BCE avrebbe investito 46 miliardi di euro a fine novembre 2016 e prevedrebbe di arrivare a 125 miliardi per settembre 2017.
Dalla Shell alla Repsol, dalla Volkswagen alla BMW, troviamo alcune delle più grandi imprese dei combustibili fossili e dell’automobile. Anche dimenticandoci dello scandalo che solo pochi mesi fa ha investito la Volkswagen, nel momento in cui l’Europa sbandiera la sua politica “verde” e i suoi obiettivi contro i cambiamenti climatici, siamo certi che sostenere tali settori con decine di miliardi sia la strategia migliore per rispettare gli impegni presi? E poi multinazionali del calibro di Nestlé, Coca Cola, Unilever, Novartis, Vivendi, Veolia, Danone, Renault e chi più ne ha più ne metta.
E l’Italia? Eni, Enel, Terna, Hera, Snam, ACEA, Assicurazioni Generali, Exor (la società di casa Agnelli che controlla Fiat e Ferrari), A2A, Telecom Italia, Autostrade per l’Italia e poche altre. Non sembra esattamente l’elenco delle imprese che hanno le maggiori difficoltà ad avere accesso al credito. All’esatto opposto, sono con ogni probabilità quelle che indipendentemente dal sostegno della BCE (che nella scelta dei titoli si appoggia alle banche centrali nazionali, quindi anche a Banca d’Italia) possono già finanziarsi alle migliori condizioni.
Per l’ennesima volta regole e procedure europee cucite su misura per i gruppi industriali e finanziari di maggiore dimensione, a scapito di piccole imprese e settori più innovativi. In Italia la stretta sull’erogazione di credito – o credit crunch – per anni ha colpito pesantemente piccole imprese, famiglie, artigiani. Così come il quantitative easing ha gonfiato i mercati finanziari senza rilanciare l’economia, così il nuovo piano della BCE sembra inefficace se non controproducente. Che si guardi alla finanza pubblica o a quella privata, ciò a cui assistiamo è un gigantesco eccesso di soldi per i più forti, mentre mancano risorse per un vero rilancio di economia e occupazione e per enormi bisogni che non trovano un finanziamento. La casa europea sta bruciando, ma i pompieri gettano acqua in una piscina piena mentre lasciano divampare l’incendio.
Se, come ripetono i libri di testo, il compito principale della finanza, anzi il suo stesso motivo di esistere, è “l’allocazione ottimale” delle risorse nell’economia reale, stiamo quindi parlando del più macroscopico fallimento dell’era moderna. Non solo provoca crisi a ripetizione, aumenta le diseguaglianze, pretende di piegare l’intera società ai propri diktat, ma al culmine del paradosso questo sistema finanziario semplicemente non funziona e non fa l’unica cosa che dovrebbe fare. Alla faccia dei “mercati efficienti”, vero pilastro su cui poggiano le teorie economiche che hanno dominato gli ultimi decenni e dominano ancora le istituzioni europee.
Cosa sarebbe accaduto con politiche monetarie ed economiche differenti? Cosa sarebbe accaduto se le centinaia di miliardi della BCE che oggi gonfiano i mercati finanziari e sussidiano le multinazionali, fossero invece stati destinati a un piano di investimenti pubblici, alla ricerca, l’occupazione, la riconversione ecologica dell’economia? Tecnicamente non ci sarebbero problemi a farlo: invece di acquistare obbligazioni della Coca Cola o della Shell, la BCE compra titoli della Banca europea per gli investimenti (BEI), una banca pubblica alla quale le istituzioni europee potrebbero dare un mandato chiaro per impiegare le risorse per gli obiettivi che la stessa Europa si è data in materia di inclusione sociale, lotta alle diseguaglianze e ai cambiamenti climatici. Farlo o non farlo non è quindi questione di trattati europei – ammesso che per qualche misterioso motivo non sia possibile cambiarli – è questione di volontà politica.
Una volontà totalmente assente in un’Europa che a dispetto dei disastri attuali rimane schiacciata su una visione liberista e su politiche monetarie ed economiche fallimentari. Non ci si può allora stupire della crescita delle destre xenofobe e populiste e del concreto rischio che l’incendio porti a una disgregazione della stessa UE. L’unica cosa che stupisce è una testardaggine che rasenta il fanatismo nel vedere che a dispetto di tali disastri, le scelte di fondo non vengono in nessun modo rimesse in discussione.
Pubblicato su Non con i miei soldi il 14 dicembre 2016.