di Paolo Gerbaudo
Uno spettro agita l’establishment neoliberista e la sinistra postmoderna, unite in questa congiuntura dalla medesima paura: il populismo. Dopo la vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi, l’ultima manifestazione di una “ondata populista” che si riaffaccia ad ogni appuntamento elettorale, dalla Brexit del giugno scorso fino al successo del “no” nel referendum costituzionale del 4 dicembre in Italia, la questione del populismo disturba i sonni dei broker dell’alta finanza come quelli di alcuni teorici della sinistra radicale.
Il termine populismo è da tempo divenuto l’etichetta infame per catalogare tutto ciò che il mondo neoliberista considera come irrazionale e inaccettabile, e prima di tutta la rabbia popolare di fronte alla follia di un capitalismo fuori controllo; ma pure per archiviare tale rabbia come un’anomalia destinata a svanire non appena gli ingranaggi dell’economia globale avessero ricominciato a girare per il verso giusto. Eppure il populismo non è un fantasma di passaggio.
L’irrompere di movimenti populisti di destra o di sinistra – da Podemos alla Brexit, da Sanders a Trump – e la loro proiezione maggioritaria, dimostrata in una serie di recenti successi elettorali, segnala che la crisi organica dell’ordine neoliberale è ormai giunta a un punto di non ritorno. Questo crollo sta aprendo le porte a una nuova era politica, un orizzonte populista che si staglia sulle macerie dell’ordine neoliberale.
L’orizzonte populista fa saltare lo schema del conflitto accettato per gli ultimi trent’anni sia dalla classe dirigente neoliberista che dai movimenti di protesta contro il neoliberismo. Coordinate considerate inamovibili come la prospettiva di un mondo unito da un mercato globale senza dazi e barriere doganali e governato da istituzioni sopranazionali, vengono ora messe in discussione, proprio a cominciare dalla destra dei paesi anglosassoni, che a suo tempo era stata la più fanatica sostenitrice della globalizzazione neoliberale.
Di fronte al disorientamento che suscita questa riorganizzazione dello spazio politico non è sufficiente l’atteggiamento di rifiuto verso il populismo manifestato [da diversi intellettuali progressisti]. Al contrario è necessario comprendere che solo costruendo un populismo progressista abbiamo qualche speranza di incanalare in senso emancipatorio il collasso dell’ordine neoliberale.
L’orizzonte populista e la sinistra post-2008
L’orizzonte populista è uno spazio ambiguo, una biforcazione politica, come quella che si apre dopo ogni crisi organica e che può portare a una soluzione progressista o reazionaria, a seconda del progetto politico che meglio riuscirà ad incarnare lo spirito di tempi di crisi. Siamo nell’interregno, la notte del travaglio che precede la nascita del nuovo mondo: il tempo dei mostri e degli spettri. Una fase piena di pericoli ma anche di nuove opportunità per costruire un futuro migliore oltre la vergogna di un’era neoliberista in cui il culto della libertà ha prodotto disuguaglianza estrema e si è tradotto nella demolizione dei legami di solidarietà.
Tale ambiguità è riflessa nel carattere doppio del populismo, che si manifesta in maniera eccentrica sia sulla destra che sulla sinistra dello spettro politico. Seguendo Ernesto Laclau, il populismo è una logica politica che oppone il popolo alle élite politiche e a vari nemici accusati di privarlo della sua libertà, dignità e benessere. Tale orientamento si manifesta in maniera inquietante nella politica reazionaria di Donald Trump, Nigel Farage, Marine le Pen e il loro odio contro tutti coloro che essi non considerano estranei al popolo (musulmani, immigrati, ecc.). Ma a partire dalla crisi del 2008 il populismo si è affacciato anche nella sinistra e nei movimenti di protesta.
Populisti sono stati i “movimenti delle piazze” del 2011, con il loro appello al 99% contro l’1%. Populista è Podemos, la cui strategia politica è influenzata dalla filosofia politica di Ernesto Laclau, e il cui discorso è caratterizzato da riferimenti frequenti al popolo e alla patria. Populista, più che socialista, è stato pure Bernie Sanders nelle primarie del partito democratico, con il suo appello all’unità del popolo americano contro la retorica razzista di Trump e il suo attacco contro la finanza e il libero commercio. Per i populisti di sinistra i nemici del popolo non sono i migranti, ma nemici sociali ed economici: i banchieri e gli imprenditori senza scrupoli primi responsabili per l’impoverimento della popolazione e i loro alleati politici.
Il populismo progressista è dunque l’elemento caratterizzante di quella “nuovissima sinistra” dell’era post-2008 – per distinguerla dalla “nuova sinistra” post-68. Una sinistra che al contrario della cosiddetta sinistra-sinistra, non sente il bisogno identitario di celebrare il fatto di essere “sinistra”, e che al contrario della sinistra postmoderna è riuscita a trasformare il malcontento di tempi di crisi e politiche di austerità in una nuova base di consenso.
Questa svolta populista non è un’aberrazione politica ma il ritorno ai principi fondanti della sinistra moderna, che è stata populista prima ancora di essere socialista e comunista e che ha vinto quando ha saputo presentarsi come forza di popolo. Le origini del populismo sono del resto di sinistra: dalla teoria della sovranità popolare di Jean-Jacques Rousseau, alla rivoluzione francese, e ai grandi movimenti popolari dell’ottocento, come i narodniki russi e i cartisti inglesi. Inoltre in tempi recenti molti fenomeni politici di sinistra hanno avuto un carattere populista cominciando dal populismo socialista di Hugo Chávez e Evo Morales.
Perché allora tanto timore verso il populismo progressista?
Populismo e post-operaismo
Dopo la vittoria di Trump in paesi come la Gran Bretagna e il Regno Unito il populismo progressista viene discusso intensamente da opinionisti radicali di primo piano come Owen Jones. In Italia invece la sinistra radicale continua a vedere l’ipotesi populista come la peste. Carlo Formenti e il suo libro La variante populista sono l’eccezione ed è per questo che il suo volume sta facendo gridare tanti allo scandalo. Ha ragione Formenti quando dice che «non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare» e che bisogna vedere il populismo come il campo di battaglia in questa congiuntura politica. Eppure queste tesi continuano a suscitare diffidenza.
La ragione per il rifiuto del populismo sta nel senso di inadeguatezza vissuto dal pensiero post-operaista, che continua a esercitare un’egemonia traballante su movimenti e sinistra radicale in Italia. A questo pensiero bisogna riconoscere di aver svelato i nuovi ingranaggi del dominio e le nuove soggettività del capitalismo postindustriale. Ma bisogna pure imputargli il fatto di non avere offerto risposte credibili in questa fase di crisi della globalizzazione. L’odio verso lo Stato-nazione, prima ancora che verso il mercato, ed il rifiuto del potere, che lo accomuna con altre correnti del pensiero anti-autoritario post-68, rendono impossibile la costruzione di una strategia credibile in questa fase.
Non sorprende dunque che lo spettro del populismo inquieti i teorici post-operaisti. Inquieta perché mette a nudo i limiti di una tradizione di grande capacità analitica, ma di insufficiente intelligenza strategica. Inquieta perché offre una nuova proposta di organizzazione collettiva laddove l’organizzazione e la leadership erano state considerate superate dalla capacità di auto-organizzazione della moltitudine.
Eppure ci sono punti di convergenza tra post-operaismo e populismo progressista. Ne è riprova il fatto che Podemos ospita molti attivisti che si sono a lungo nutriti dei testi di Antonio Negri, ma che si sono resi conto che se il post-operaismo ha fornito un’analisi corretta e approfondita della realtà sociale nell’era post-fordista, non ha fornito una strategia organizzativa convincente. Per questa nuova generazione di attivisti il post-operaismo ha risposto alla domanda “che cosa sta succedendo” ma non all’eterno quesito “che fare?”.
Il populismo progressista offre una risposta a molti dei quesiti che emergono dall’analisi post-operaista. L’immaginario unificante del populismo progressista fornisce un antidoto alla frammentazione e all’individualizzazione del mondo del lavoro e della società contemporanea. L’identità popolare, come fusione di diverse frazioni di classe, può servire ad alleare knowledge workers e freelance, precari e lavoratori della logistica, operai disillusi e disoccupati, che fino ad oggi hanno fatto fatica a costruire un fronte comune.
Il populismo offre pure un cammino per conquistare quelle rivendicazioni che il post-operaismo ha messo al centro del dibattito. Perché il reddito di cittadinanza non te lo darà mai il fantomatico Comune post-operaista, e neppure l’Unione europea, quantomeno non nel breve periodo, ma lo Stato-nazione. E perché la presente congiuntura politica non si confà al velleitarismo soffice di Spinoza e di Deleuze tanto amati dai post-operaisti ma piuttosto al realismo spigoloso di quella linea teorica che va da Machiavelli a Gramsci e Laclau.
L’orizzonte populista è il campo di battaglia in cui si deciderà l’egemonia politica dell’era post-neoliberista. Di fronte a questa evidenza possiamo indugiare nella speranza mistica che finalmente un giorno la profezia della Moltitudine auto-organizzata e del Comune che non ha bisogno di appoggiarsi sul Pubblico verrà realizzata. Oppure possiamo esplorare l’ipotesi populista come suggerito nel manifesto di Senso Comune per un populismo democratico a cui ho recentemente contributo con alcuni attivisti e ricercatori. Non si tratta di una strada senza rischi e neppure di una strada che porta a un successo sicuro, ma quantomeno di strategia offensiva che prova a fare i conti con il cambiamento radicale dello spazio politico nell’era post-neoliberale.
Pubblicato su alfabeta2 il 10 dicembre 2016.