di Giacomo Bracci
In questi giorni è abbastanza comune sentire che la vittoria del “no” al referendum costituzionale sia stata il frutto di una resistenza tutta italiana a qualsiasi tipo di cambiamento. Si tratta di una lettura ingenua dell’esito del voto, che lo relega ad una dimensione nazionale e contingente, mentre a mio avviso è stato l’ennesima manifestazione di una fase storica che dura da qualche decennio.
Tutto ha inizio con l’avvento di quella che Robert Dahl ha definito la “crisi della democrazia rappresentativa”, e che potremmo sintetizzare in questo modo. Nel secondo dopoguerra la partecipazione alla cosa pubblica ha coinvolto fasce sempre più ampie della popolazione, grazie all’estensione dei diritti sociali, civili e politici e alla diffusione e la distribuzione del benessere economico. Sebbene ciò abbia contribuito a creare stabilità e sicurezza per una quantità di famiglie che non ne mai avevano beneficiato in questo modo nella storia, la crescita economica alla radice di tutto ciò è stata costruita sulla base di uno sfruttamento del lavoro che anch’esso senza precedenti, ed ha perciò portato alla luce la rivendicazione di un ampliamento della democrazia; una rivendicazione così forte da far desiderare a gruppi sempre più numerosi di persone un superamento completo dell’ordine costituito.
Le classi politiche dell’epoca, vista la situazione, si sono trovate di fronte ad un bivio: rischiare di alimentare il disordine attraverso una maggiore concessione di questi diritti, o restringerne la concessione attraverso una graduale riduzione del ruolo biopolitico dei governi, e una conseguente trasformazione degli apparati pubblici in arbitri del meccanismo della competizione? Un ormai celebre rapporto del 1973 intitolato The Crisis of Democracy, redatto dalla Trilateral Commission – uno dei think tank allora più influenti in ambito euro-atlantico – indicava chiaramente una preferenza per la seconda opzione. La strategia che il rapporto ipotizzava era basata su alcuni punti fondamentali: la riduzione del potere sindacale tramite la concertazione, la riduzione della partecipazione popolare alla vita politica grazie alla diffusione di “apatia”, e in generale la preferenza per un sistema politico ed economico in cui nessun diritto viene garantito a priori, ma ognuno di essi va ottenuto tramite un meccanismo di merito.
In questo quadro, era naturalmente necessario che il potere dei parlamenti fosse sensibilmente ridotto rispetto a quello degli esecutivi e che, onde evitare ulteriori contrapposizioni fra stati portatori di istanze politiche differenti, le istituzioni sovranazionali in definitiva acquisissero sempre più prerogative anche nei confronti degli esecutivi nazionali. La crescita economica sarebbe stata guidata dagli investimenti privati, e non più da una spesa pubblica che veniva vista come distorsiva degli incentivi e del sistema del merito. Per far ciò, era necessario che gli esecutivi potessero effettuare decisioni in maniera rapida ed efficiente, ovvero con meno pressioni da parte dell’elettorato, che spesso impediva l’attuazione di politiche volte ad eliminare le tutele presenti sul mercato del lavoro. Queste ultime, infatti, costituivano delle “rigidità” che impedivano al sistema delle imprese di poter investire con flessibilità, ovvero la sicurezza di poter dismettere rapidamente i propri impianti e la propria forza lavoro e ricollocare entrambi nel caso in cui vi fossero state degli shock alla domanda interna e/o un innalzamento eccessivo dei livelli salariali nei paesi. Da qui sorgeva la necessità di governi più stabili possibili nel tempo e di un sistema elettorale che garantisse la maggioranza assoluta allo schieramento vincente, poiché all’incertezza politica veniva associata un’incertezza economica in grado di trasmettersi agli investimenti e portare perciò alla fuga dei soggetti più produttivi dai paesi.
Fin qui sembra tutto abbastanza risaputo, se non fosse per il fatto che se l’agenda di cui sopra è stata adottata con disciplina da governi conservatori negli anni ’80, i governi cosiddetti progressisti l’hanno applicata con ancora maggior precisione a partire dagli anni ’90. Nello specifico, gli schieramenti progressisti hanno applicato alla lettera le prescrizioni provenienti da OCSE, FMI e la nascente UE, soprattutto in tre ambiti: la liberalizzazione progressiva dei monopoli nazionali e delle concessioni pubbliche con annesse privatizzazioni dei primi, la promozione di politiche di flessibilità sul mercato del lavoro e lo spostamento del focus dell’azione politica dalla “piena occupazione” alla “piena occupabilità” e l’applicazione di politiche fiscali restrittive per porre un freno all’inflazione e generare aspettative positive negli investitori in merito alla tassazione futura.
Questo complesso di politiche ha permesso agli schieramenti progressisti in Europa di inglobare settori provenienti dalla sinistra radicale all’interno dei governi (mentre lo stesso avveniva a destra), ma ha generato uno scollamento tra il suo blocco sociale storico di riferimento e i suoi rappresentanti politici. Infatti, mentre la divisione con gli schieramenti conservatori restava e resta tutt’ora forte in materie come ad esempio i diritti civili, la percezione del blocco sociale di riferimento dei progressisti rispetto alle politiche economiche e sociali portate avanti da questi governi è stata quella di una sostanziale identificazione con l’agenda politica di cui sopra. In sostanza, il messaggio che i progressisti hanno inviato al proprio elettorato è stato il seguente: accettate le disuguaglianze e l’impossibilità di garantire universalmente uno standard minimo di vita, in cambio avrete la possibilità di acquistare uno status sociale superiore in maniera sempre più rapida se sarete in grado di acquisire le competenze richieste sul mercato. Tuttavia, se l’amplificazione delle disuguaglianze, l’incremento della disoccupazione, la riduzione dei servizi pubblici e una crescente asimmetria del carico fiscale gravante sulla piccola imprenditoria sono stati risultati conseguiti con successo, non lo è stata altrettanto la fluidificazione della mobilità sociale, che resta più bloccata che mai, e il fenomeno della disoccupazione di lungo periodo continua a caratterizzare il mercato del lavoro nonostante gli sforzi continui a rendere “occupabili” le persone in cerca di lavoro.
Nel frattempo, il blocco sociale di riferimento dei progressisti è cambiato in maniera radicale. Mentre i manager delle grandi imprese, tecnicamente dei dipendenti, sono stati in grado di decuplicare le proprie retribuzioni e il loro potere sociale, sempre più figli di “proletari” hanno acquisito piccole imprese commerciali, sono divenuti (volenti o nolenti) lavoratori autonomi e professionisti, diventando tecnicamente degli imprenditori, almeno di sé stessi. Il mondo progressista però non ha saputo procedere ad un aggiornamento delle proprie categorie sociologiche di “classe”, con il risultato che a fronte dell’applicazione dell’agenda di cui sopra ampi settori di quella che viene definita classe media hanno perso un soggetto politico di riferimento e pertanto hanno completamente interiorizzato la narrazione delle élite conservatrici che ha dato origine all’agenda stessa. Se non c’è lavoro, quindi, è colpa della burocrazia e dell’inefficienza dello Stato; sono i politici che hanno stipendi troppo elevati, e i vecchi lavoratori protetti vivono nella bambagia mentre legioni di giovani lavoratori non garantiti non riescono ad entrare nel mondo del lavoro. Nessun soggetto politico ha saputo raccontare a queste classi una storia diversa, che prendesse in considerazione l’effetto che politiche economiche restrittive hanno sul mercato del lavoro. Sarebbe bastato illustrare come in un’economia monetaria una crescita dei risparmi delle famiglie e dei profitti delle imprese possa essere generata esclusivamente da uno di questi tre fenomeni: 1) una crescita del disavanzo pubblico, 2) una crescita del disavanzo del settore privato tramite l’indebitamento per consumi, 3) una crescita delle esportazioni nette, ovvero un disavanzo registrato dal resto del mondo nei confronti del paese. Se osserviamo la storia economica degli ultimi vent’anni prima del 2007, è immediato rendersi conto che tutte le politiche maggiormente in voga fra UE ed USA sono state basate sull’aumento della 2) e della 3), e ad un abbattimento della 1).
L’esplosione del “populismo” dal 2010 ad oggi è nient’altro che un effetto collaterale dell’implosione di questo schema. Garantire massima stabilità ai governi mentre questi ultimi destabilizzano la sicurezza delle vite della maggioranza delle popolazioni non è più uno schema sostenibile e viene rifiutato in blocco da queste ultime, anche al costo di rifiutare il sostegno ai candidati progressisti (leggasi sconfitta di Hillary Clinton) ed effettuare scelte “irresponsabili” (leggasi Brexit e vittoria del “no”). Se la cultura progressista fosse ancora in grado di leggere la realtà in maniera scientifica e non ideologica, si renderebbe conto del fatto che la scelta di puntare su una riduzione del grado di democrazia, compiuta negli anni ’80-’90, e non su un suo ampliamento, è stata un errore strategico pagato a carissimo prezzo. Democrazia, infatti, non significa esclusivamente la possibilità di votare i propri candidati: significa anche poter partecipare alla vita sociale tramite uno standard di vita dignitoso, avere la libertà di rifiutare condizioni di lavoro ingiuste, partecipare alla decisione in merito a cosa, quanto e come produrre beni ed erogare servizi. In questo senso, non ci sono governi efficienti che possano salvare la cultura progressista: anzi, questa dovrebbe ragionare sull’idea che sono i governi a dover diventare più “governabili”, più monitorabili e controllati da parte delle popolazione. E che la stabilità è in primis quella fornita da una piena occupazione, una struttura di enti locali funzionanti e competenti, una rete di protezione sociale pubblica efficace e una sinergia positiva fra istruzione ed innovazione.
Gli elementi per capire le ragioni di questo esito referendario, così come del successo dei populismi, ci sono. Basta osservarli.