di Heiner Flassbeck
Se la terra trema, spesso se ne sentono gli effetti anche a distanza di migliaia di chilometri, mentre le scosse di assestamento per lo più si notano poco. Quando la terra trema dal punto di vista politico, vale invece spesso il contrario: gli effetti immediati sono piccoli, mentre le scosse di assestamento hanno di solito effetti devastanti.
E il suolo politico, domenica 4 dicembre, ha tremato contemporaneamente due volte. Dapprima c’è stato un piccolo terremoto a nord delle Alpi. Più tardi, a sud, la terra ha tremato con violenza, con un’intensità tale che la scala Richter non può ancora registrare. In Austria ha raccolto il 48% dei voti il rappresentante di un partito che considera l’Europa del sud una zona fallimentare, che ha come unico obiettivo quello di sottrarre alle nazioni del nord i soldi guadagnati onestamente. Eppure, molti “bravi europei” si rallegrano che il candidato di questo partito non abbia raggiunto il 51% e interpretano questo evento come il primo segnale di luce in fondo al tunnel “populista”. Che invece ciò possa rappresentare il treno che arriva sfrecciando dalla direzione opposta, non lo vogliono nemmeno prendere in considerazione.
In Italia ha perso le votazioni in modo clamoroso un presidente del Consiglio che a buon diritto si poteva definire come l’ultima speranza europea. Sebbene non eletto dal popolo, Matteo Renzi incarnava la speranza del “tutto andrà bene” con cui la classe politica del nord si imbellettava per non sentire l’odore di putrefatto che si va diffondendo da tempo. Renzi, invero, ha cercato continuamente di sottrarsi al pungiglione tedesco, ma è rimasto per lo più nel limite del simbolico, preferendo invece imboccare il lungo cammino delle “riforme strutturali”, verosimilmente senza aver mai capito che pure quella strada, anche senza il rifiuto del popolo, portava alla perdizione (come spiegato qui).
A nord si spera adesso che in Italia nasca un “governo tecnico”. Si fa affidamento su individui che si ritiene abbiano una migliore comprensione di quel che c’è da fare per scongiurare all’ultimo secondo il crollo dell’edificio europeo; una comprensione di sicuro migliore rispetto a quella di governi democraticamente eletti.
Ma di che genere di esperti stiamo parlando?
Esperti in “riforme strutturali” che, contro ogni logica macroeconomica, potrebbero dirigere il paese sul sentiero della crescita? Si pensa forse al ministro del tesoro italiano Pier Carlo Padoan, che, quale ex rappresentante del Fondo monetario internazionale e quale ex capo economista dell’OCSE, conosce bene il da farsi per riformare un paese con misure sul lato dell’offerta? C’è forse ora la necessità di un’agenda economica radicalmente neoliberista alla François Fillon per rendere il paese finalmente capace di stare in Europa?
Quello che non si è in grado di afferrare, né in Francia né in Italia, (e dico “non si è in grado” a ragion veduta, dopo molte esperienze dolorose delle settimane scorse) è il dato di fatto che la Germania, con la sua politica economica, fin dall’inizio dell’unione monetaria, ha impostato proprio questa strada. L’unico modo per riformare con successo un paese sul lato dell’offerta passa per il miglioramento della sua capacità concorrenziale, passa cioè per il neo-mercantilismo e la politica del beggar-my-neighbour. Ma proprio la Germania ha ostacolato perfino questa via con il proprio mercantilismo. Poiché il vantaggio competitivo assoluto che il paese tedesco si è indebitamente procurato con il suo dumping salariale nei primi anni dell’unione monetaria è così grande che nessun paese (a parte forse una nazione atipica come l’Irlanda) può migliorare la propria competitività senza passare attraverso l’inferno di massicci tagli ai salari, innescando così una profonda recessione e aumentando la disoccupazione in modo drammatico. Chiunque, partendo dal centro del panorama politico, tentasse di farlo, alle elezioni seguenti verrebbe bruciato senza appello dalle forze della destra nazionalistica.
Inoltre, la decisione della Germania, che insiste per motivi puramente ideologici sulle regole del patto di crescita e stabilità, di bloccare qualsiasi via d’uscita dalla crisi dal lato dell’offerta, ha semplicemente cancellato l’unica via d’uscita dalla crisi possibile.
La completa mancanza di vie d’uscita dalla crisi europea porta direttamente al nazionalismo. Non è perciò un’esagerazione affermare che la Germania è direttamente responsabile del nazionalismo nel sud Europa. Quello del nord lo ha sulla coscienza in via indiretta, poiché, proprio negando ogni colpa da parte tedesca e austriaca, si apre la strada ai partiti di destra che sostengono sfacciatamente che i lazzaroni del sud sarebbero a carico di noi settentrionali, efficienti e produttivi.
A questo punto basta solo far mente locale su quanto sia autoassolutorio il modo in cui la classe politica e i media tedeschi trattano la questione europea e le colpe della Germania, per capire quanto è grande, nell’insieme dell’Europa, la babilonica confusione sui fatti reali. Spiegare i contesti e le connessioni in modo tale da permettere alla classe politica di fare almeno alcuni passi in avanti nella direzione giusta, è un compito di dimensioni erculee. Il terremoto italiano, così come l’ascesa del nazionalismo austriaco, si sarebbe potuto evitare con poca più lungimiranza e comprensione. Ma lungimiranza e comprensione non sembrano qualcosa che il complesso politico-mediatico, tedesco ed europeo, sia in grado darci.
Pubblicato su Makroskop il 5 dicembre 2016. Traduzione di Giuseppe Vandai per RISORSE – Associazione per capire meglio l’economia.