È un Ligabue in piena forma, quello che emerge dall’ascolto del primo concept album della sua carriera, intitolato “Made in Italy”. Cominciamo intanto col dire che il rocker di Correggio, per l’occasione, ha rinnovato parzialmente il suo sound rispondendo, in qualche modo, all’accusa di una certa monotonia nell’arrangiamento dei propri pezzi. A fianco alle sempre presenti chitarre elettriche del fedele Poggipollini ha voluto infatti inserire alcuni elementi di novità piuttosto inediti che rimandano in qualche modo al jazz, al raggae (“I miei quindici minuti”) e al folk (la brevissima “Apperò” col solo ukulele).
Per quanto riguarda i testi, invece, l’artista italiano ha creato una vera e propria trama, che si dipana nei 14 episodi del disco in modo quasi cinematografico. La storia è quella di un ormai non più giovane uomo di nome Riko, sposato con Sara e che vive la classica vita dell’odierna provincia italiana. Sulla scia di brani di un passato abbastanza recente come “Buonanotte all’Italia”, “Il sale della terra” o “Muro del suono” sembra quasi che in realtà le canzoni dell’album siano solo degli spunti per evidenziare a sprazzi le varie magagne, debolezze e forse anche miserie della nostra società.
Per chi vive all’estero, come il sottoscritto, fa ancora più effetto ascoltare ad esempio “La vita facile” nella quale il protagonista, disilluso, lamenta di essere stato preso in giro da un paese che racconta sempre di voler migliorare la vita dei propri cittadini, ma non la cambia mai (“mi son bevuto le promesse che hanno fatto – non c’è più niente da bere”). C’è poi la critica di “G come Giungla” e “L’occhio del ciclone” nelle quali la polemica raggiunge livelli così alti, da far sembrare la vita in Italia quasi un percorso di sopravvivenza. Accanto a queste canzoni di protesta, regna l’amarezza della malinconica “Meno male” – voce e chitarra acustica con il suono molto efficace della tromba di Massimo Greco – in cui emerge la vergogna di chi si ritrova, suo malgrado, a tirare un sospiro di sollievo per il licenziamento di un collega, al posto del proprio.
Il mood ha anche momenti quasi ironici come in “È venerdì, non mi rompete i coglioni” (l’inizio di un week end che finisce con una mezza rissa fra vecchi e giovani) o in “Dottoressa”, nella quale Riko descrive minuziosamente la sua visita medica, con l’aspettativa del semi-miracolo. Lo stesso tono sarcastico è mantenuto nella succitata “I miei quindici minuti” in cui una breve intervista in TV, casuale, rappresenta la speranza di diventare finalmente famoso (“un talk show da ravvivare o soltanto da riempire, chissà cosa staranno dicendo nel mio quartiere“).
Infine, resta da citare il tema della crisi matrimoniale, delicatamente affrontata nella ballata “Vittime e complici” dove spicca la frase: “questa porta non si chiude – non si chiude bene quando c’è da stare insieme”, in cui forse molte coppie in difficoltà potrebbero immedesimarsi.
Nel complesso, si tratta a mio avviso di uno dei migliori album di Ligabue – a dispetto dei suoi sempre più numerosi detrattori – che, a quanto pare, potrebbe dar vita ad un film basato sul suo “storyboard”. Staremo a vedere.