E ora chi guiderà l’Europa? Il risultato del referendum italiano apre formalmente una fase nuova nell’Unione europea. Ampiamente attesa, ma altrettanto ampiamente anticipata da speranze che invece sono sfumate. Non c’è più, o quasi, nell’Unione europea, la capacità tecnica e politica di decidere.
E’ in corso un cambio ampio della classe dirigente del Vecchio Continente, i principali leader e i partiti tradizionalmente al potere stanno sparendo uno ad uno. Sembra reggere bene solo la tedesca Angela Merkel, ma manca quasi un anno al voto e tante cose possono ancora accadere.
Il momento storico è difficile, l’economia non riparte come si vorrebbe, la pressione migratoria è lì che non cala come si vorrebbe, Europol ha rilanciato la scorsa settimana la minaccia terroristica, c’è una guerra alle nostre porte, in Siria, che sta compromettendo equilibri delicati.
E tutto sta cambiando, negli Stati Uniti c’è un presidente che rappresenta un “nuovo” in buona parte sconosciuto e che minaccia, per bocca dello stesso presidente eletto, di essere destabilizzante.
Che tutto cambi, in sé, non è un guaio, anzi, dopo i fallimenti degli scorsi anni se alcuni leader si tolgono di mezzo può essere una notizia molto positiva. Il problema è in che senso sta cambiando. Nei vari test elettorali in giro per l’Europa stanno vincendo le forze dette “populiste” (anche il tenue sorriso che arriva dalla elezioni austriache deve essere messo alla prova delle prossime elezioni politiche).
Queste nuove forze sono accomunate da alcuni elementi, ma due sono fondamentali: il rigetto per la classe dirigente ora al potere e un forte nazionalismo, una forte inclinazione a guardare i problemi interni come slegati, e dunque risolvibili, al di fuori di un quadro comune, cosa che non è, basta guardare al tema immigrazione. Lo si vede ad esempio nel piccolo laboratorio del Parlamento europeo, dove esiste un gruppo che raccoglie molte di queste forze antisistema, nel quale, però, lo stare insieme è dettato solo da ragioni economiche e di agibilità parlamentare, poi ognuno vota per conto suo, non esiste un progetto comune. Come ha invitato a fare il leader di uno di uno dei principali di questi movimenti, Beppe Grillo, questi elettori molto spesso votano “con la pancia”, votano di protesta, votano sul malessere immediato (che pure c’è, è indiscutibile) e non chiedono un programma di governo vero, di ampio respiro, un progetto per il domani. Altro esempio è il voto Brexit, che ha lasciato un grande paese senza un progetto per affrontare il risultato, con un governo che si dibatte in conflitti interni e legali, che non ha ancora messo nero su bianco le indicazioni sulla strada da seguire.
Servirebbe, in questa fase della storia europea, una politica forte, collaborativa, solidale, invece i governi nazionali si vanno indebolendo, come è successo ieri in Italia, dove le dimissioni di Matteo Renzi aprono una fase assolutamente incerta, che potrebbe anche essere ancor più complicata da un voto immediato, con due leggi elettorali diverse tra Camera e Senato, rendendo quindi molto difficile la formazione di una maggioranza.
Se i governi sono deboli anche l’Unione europea è debole, il che vuol dire che sarà praticamente impossibile decidere politiche impegnative come sulle banche, sull’immigrazione, sulla lotta alla disoccupazione.
Quel che ci domandiamo, ora è: chi guiderà l’Europa? Per andare dove?