Bruxelles – Tra tutte, è forse la priorità su cui davvero è vietato sbagliare, perché fallire nella gestione dell’immigrazione, può voler dire fallire nel progetto europeo. Lo si è visto bene nelle settimane più calde dell’estate 2015, quando l’aggravarsi del conflitto in Siria ha ingrossato flussi senza precedenti di profughi pronti a traversate disperate per approdare sulle coste europee. Una situazione di fronte a cui la gestione europea dell’immigrazione ha mostrato tutti i suoi limiti con gli Stati membri che, per tentare di proteggersi, hanno iniziato a chiudere a catena i propri confini mettendo a rischio Schengen e la libera circolazione, uno dei principi base su cui poggia l’intera Unione. La posta in gioco, insomma, è altissima e non si può sperare di cavarsela con soluzioni parziali o di corto respiro. L’unico approccio possibile, è un approccio globale, che ripensi l’intero sistema di gestione europea dell’immigrazione. È quanto sta tentando di fare la Commissione europea di Jean-Claude Juncker che, fin dalla sua entrata in carica, ha annunciato la decisione di presentare un’agenda europea sull’immigrazione, che si è materializzata a maggio 2015, quando l’esecutivo comunitario ha reso pubblica la sua tabella di marcia, fatta di misure da prendere nell’immediato ma soprattutto di iniziative da varare negli anni a venire per tentare di gestire meglio l’immigrazione in ogni suo aspetto.
Tra le azioni più urgenti, si è passati rapidamente dalle parole ai fatti sulla necessità di dare vita ad un corpo di guardia frontiera e costiera europea. La proposta della Commissione europea è stata presentata a dicembre 2015 e in meno di sei mesi si è riusciti a raggiungere l’accordo con Consiglio e Parlamento europeo. Ad ottobre 2016, la nuova agenzia per il controllo delle frontiere ha iniziato ufficialmente ad operare, al confine tra Bulgaria e Turchia. Il personale permanente della nuova agenzia è più del doppio rispetto a quello di cui disponeva Frontex (entro il 2020 si arriverà ad almeno mille persone) e per la prima volta l’agenzia può acquistare autonomamente i propri equipaggiamenti oltre che contare su quelli forniti dagli Stati membri. La nuova guardia frontiera e costiera europea condurrà “analisi di rischio” e “valutazioni di vulnerabilità” per identificare le debolezze alle frontiere esterne Ue e disporrà di una squadra di intervento rapido di almeno 1.500 esperti che possono essere dispiegati in un massimo di tre giorni. Unico oggetto di disaccordo tra Commissione da una parte e Consiglio e Parlamento dall’altra è stata, in questo campo, la possibilità che l’agenzia intervenisse in uno Stato membro anche contro il suo volere. La Commissione europea l’avrebbe voluto per poter rimediare a quelle gravi carenze nella gestione della frontiera esterna da parte di un Paese che rischiano di mettere a repentaglio la libera circolazione in tutta Europa (così come già accaduto nel caso della Grecia nei periodi di maggiore afflusso), ma l’idea ha incontrato la resistenza dei co-legislatori che alla fine hanno avuto la meglio. A parte questo punto, però, almeno sull’obiettivo comune di una migliore protezione dei confini, è stato semplice trovare un consenso.
Molto meno lo è stato su un’altra delle azioni che la Commissione europea aveva individuato come una delle più urgenti da mettere in atto per alleviare la crisi migratoria e cioè il trasferimento di una parte di rifugiati dagli Stati membri più sotto pressione (Italia e Grecia) verso gli altri Stati europei. Fin dall”inizio l’idea non è piaciuta affatto al blocco dei Paesi dell’Est che non sono riusciti (nonostante il no di Romania, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) ad impedire, nel settembre 2015, il via libera in Consiglio a maggioranza qualificata di un piano per ricollocare 160mila rifugiati in due anni da Italia e Grecia verso il resto d’Europa. Peccato che, nonostante la decisione, l’opposizione dei contrari sia continuata poi anche nella pratica. Ad oggi, a meno di dieci mesi dalla data in cui i ricollocamenti dovevano essere tutti portati a termine, sono stati trasferiti appena 1.549 rifugiati dall’Italia e 5.376 dalla Grecia. In tutto: 6.925, nemmeno il 5% di quanto si era stabilito. Una spaccatura evidentissima sulla solidarietà basilare per una ordinata gestione dell’immigrazione a livello europeo. Un po’ meglio va con i reinsediamenti, cioè i trasferimenti di migranti che hanno diritto alla protezione internazionale da Paesi terzi verso l’Europa: su questo siamo a quasi a quota 12mila sui 20mila concordati.
Più successo si è avuto con l’idea di dare vita ad un’operazione di politica di sicurezza e di difesa comune nel Mediterraneo per combattere il traffico di migranti dalla Libia, individuando e distruggendo il “business model” dei trafficanti di vite umane. La missione è stata ufficialmente lanciata a luglio 2015 con una prima fase di intelligence e monitoraggio. Ad ottobre dello stesso anno è scattata la fase due, quella che prevede anche il sequestro e la distruzione delle imbarcazioni utilizzate dagli scafisti. Da poche settimane, poi, la missione porta avanti anche altri due compiti. Da una parte contribuisce alla formazione della guardia costiera libica (su questo fronte è impegnata anche la marina italiana con la nave San Giorgio) e dall’altra i mezzi coinvolti nella missione contribuiscono a fare rispettare l’embargo sulle armi alla Libia imposto dalle Nazioni Unite. Tutto questo avviene solo nelle acque internazionali perché per potere operare in acque libiche occorrerebbe un accordo con il governo del Paese e una risoluzione delle Nazioni Unite. Elementi che sarebbero necessari per la terza fase dell’operazione, quella che prevederebbe la distruzioni di imbarcazioni e strutture logistiche usate dai trafficanti no solo in mare ma anche nei porti libici.
A irrompere nell’agenda di quanto pianificato, c’è stata poi la necessità di stoppare l’enorme flusso di migranti in fuga dalla Siria che, partendo dalla Turchia e attraversando l’Egeo, hanno portato al collasso i sistemi di accoglienza della Grecia prima e poi su a salire di tutta la cosiddetta rotta dei Balcani per arrivare fino alla Germania che ha accolto da sola, nel 2015, oltre un milione di rifugiati. Gli Stati membri toccati hanno iniziato a chiudere a cascata le frontiere e ancora oggi cinque Stati membri (Germania, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia) mantengono i controlli ai confini. Per tentare di normalizzare la situazione la Commissione europea ha presentato la road map “Back to Schengen” con i passi da compiere per restaurare la libera circolazione interna. Per renderlo possibile, però, era necessario prima di tutto diminuire la pressione migratoria. Si è così aperta la complessa partita dei negoziati con la Turchia. Lo Stato accoglie già oltre tre milioni di rifugiati ma ha concordato con Bruxelles uno sforzo ulteriore: al Consiglio europeo dello scorso 18 marzo è stato siglato un accordo con cui Ankara si impegna a impedire tutte le partenze irregolari dalle sue coste e l’Unione si impegna, in cambio, a versare al Paese tre milioni di euro per migliorare le condizioni di vita dei rifugiati siriani nel Paese. Dall’entrata in vigore del patto, i migranti che lascino comunque la Turchia e approdino sulle coste greche, vengono riportati indietro verso la Turchia. Secondo l’intesa, per ogni migrante irregolare riportato in Turchia, un siriano con diritto alla protezione internazionale sarà reinsediato in Europa. Per siglare l’accordo, vitale all’Europa per riprendere respiro dopo mesi di pressione migratoria asfissiante, il governo turco ha però chiesto (e ottenuto) impegni sull’accelerazione del processo per la liberalizzazione dei visti con l’Europa e del processo di adesione della Turchia all’Unione europea. Impegni questi che Bruxelles ha preso ma che ora è impossibile rispettare visto che, soprattutto in reazione al tentato colpo di Stato di luglio, il governo di Recep Tayyp Erdogan, sta venendo meno a tutti quei principi necessari per immaginare un avvicinamento di Ankara all’Ue. Per questo l’accordo vacilla, ma per il momento regge e ha effettivamente portato un calo nella portata dei flussi dalla Turchia alla Grecia di oltre il 90%.
La crisi migratoria di questi mesi ha reso evidente che occorre un ripensamento più complessivo del sistema europeo di gestione dell’immigrazione, a partire dal regolamento di Dublino, quello che stabilisce a quale Stato membro compete analizzare la domanda di asilo di un migrante. Il sistema in vigore lascia l’onere sulle spalle dei Paesi di primo arrivo, un sistema che ha mostrato tutti i suoi limiti. Per questo la Commissione europea ha avanzato a maggio di quest’anno una proposta per riformare Dublino. Il sistema immaginato dall’esecutivo comunitario mantiene il principio del Paese di primo approdo ma immagina una sostanziale modifica: quando questi Paesi siano sottoposti ad una pressione sproporzionata (più del 150% della capacità di accoglienza), dovrebbe scattare un meccanismo di redistribuzione automatica per ricollocare i migranti negli altri Stati europei. Per tentare di costringere gli Stati ad accettare i ricollocamenti a cui sono tanto restii, la Commissione ha proposto di imporre una compensazione economica agli Stati che rifiutano l’accoglienza: 250mila euro per ogni migrante non accolto, da versare al Paese che se ne farà carico al posto suo. Una somma elevatissima, che mostra la chiara volontà della Commissione di forzare tutti gli Stati a collaborare. La proposta, però, come prevedibile, sta incontrando una fortissima resistenza in Consiglio. La presidenza slovacca alla guida dei negoziati in questi ultimi mesi, insieme agli alleati di Visegrad (Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca) sta spingendo per la cosiddetta “solidarietà flessibile”, cioè la possibilità per i Paesi che non vogliono accogliere migranti, di contribuire in altro modo al sistema europeo di asilo. “Sono convinto che serva molta più solidarietà m so anche che la solidarietà deve arrivare volontariamente. Deve venire dl cuore, non può essere imposta”, ha detto Juncker a settembre 2016 nel suo discorso sullo stato dell’Unione, con quella che alcuni hanno letto come una possibile apertura alla solidarietà flessibile. Ma per l’Italia e il blocco di Paesi del sud questa impostazione è inaccettabile e sicuramente le discussioni rimarranno accese anche nei prossimi mesi quando salirà in carica la presidenza di turno maltese, sulla stessa linea dell’Italia nella battaglia per un’equa condivisione delle responsabilità tra Stati membri.
Nel frattempo, per tentare di combattere i fenomeni che sono alla radice delle migrazioni, la Commissione europea ha aperto un altro fronte di azione, questa volta “esterno”. L’idea, partita anche su impulso della proposta italiana del cosiddetto “Migration Compact”, è quella di stringere accordi, basati su una serie di incentivi e disincentivi, con alcuni Paesi terzi da cui partono i flussi migratori. In sostanza l’Europa si impegna a sostenere lo sviluppo del Paese, a immaginare canali di ingresso legale e in cambio lo Stato aumenta gli sforzi per il controllo delle partenze illegali e la cooperazione sui rimpatri degli irregolari. Per adesso l’Ue sta lavorando soprattutto con Nigeria, Niger, Senegal, Mali ed Etiopia. Nei prossimi mesi, poi, la Commissione dovrebbe presentare una nuova proposta per una sorta di “Piano Juncker” ma per gli investimenti esterni, così da mobilitare investimenti nei Paesi terzi in via di sviluppo. Si partirà con una dotazione di 3,1 miliardi di fondi Ue a cui si spera corrisponda un impegno equivalente da parte degli Stati. In questo modo, grazie all’effetto leva, si spera di arrivare a mobilitare fino a 62 miliardi di euro.