di Maurizio Sgroi
Sono quasi passati quindici anni da quando la Cina ha fatto il suo ingresso nel WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio, suggellando così la sua definitiva uscita dalla cortina di ferro e una straordinaria rivoluzione commerciale globale la cui narrazione è stata uno dei filoni portanti della globalizzazione recente. «La sezione 15 del protocollo prevedeva che la Cina potesse essere tratta come una non market economy (NME) nei procedimenti anti dumping se le aziende cinesi non fossero state in grado di provare che operano in condizioni normali di mercato», ricorda un documento del Parlamento europeo redatto alla fine del 2015. Questo stato di NME era previsto durasse proprio 15 anni al termine dei quali la Cina avrebbe potuto ottenere lo stato di economia di mercato.
Inutile dire che i cinesi se lo aspettano, anzi per loro si tratta di un fatto assolutamente automatico. Un’interpretazione che lo studio del Parlamento UE ha definito «altamente controversa». Nel frattempo tuttavia la status MES alla Cina è stato riconosciuto da alcuni paesi, come il Brasile, mentre altri, come l’Australia e il Sud Africa, ne hanno fatto la base per accordi bilaterali. Il succo è chiaro: tutti vogliono fare affari con la Cina come se fosse un paese con un’economia di mercato anche se sanno benissimo che è vero il contrario.
L’UE si trova esattamente nella stessa posizione. La Cina è un partner importante, ma molti temono che riconoscerle lo status MES significherebbe far sparire i dazi sui prodotti cinesi e quindi mettere in crisi diversi settori industriali europei. Non a caso il Parlamento UE ha votato alcuni mesi fa una risoluzione non vincolante per la Commissione UE, che alla fine dovrà dire la sua, proprio per non concedere lo status MES alla Cina. Risoluzione alla quale hanno fatto seguito alcune dichiarazioni, rilasciate lo scorso 20 luglio da due commissari europei che hanno sottolineato come il problema non sia tanto la concessione dello status MES alla Cina, quanto la costruzione di un sistema di regole che consenta di difendere l’industria europea dal dumping cinese, anche nel caso che tale status venga concesso. Il che somiglia a un tentativo diplomatico per far contenti i cinesi e non spaventare gli europei.
Sono state scritte miliardi di parole su come l’ingresso nel WTO abbia consentito alla Cina di realizzare tassi di crescita stellari e insieme accumulare miliardi di riserve grazie agli attivi commerciali, mentre i paesi importatori dislocavano le loro produzioni in Cina per risparmiare sui costi di produzione e intanto interi sistemi produttivi non capaci di competere o di esternalizzare venivano sbriciolati dalla concorrenza cinese. La Cina ormai è diventato il bau bau del XXI secolo – l’acquirente di ogni cosa – così come lo era stato il Giappone negli anni ’80, prima che implodesse, e ancora oggi si guarda alla Cina come il naturale competitore degli americani, mostrando con ciò di aver sottovalutato quanto sia pervasivo il legame che lega l’uno all’altro i due presunti competitori. E in mezzo ci sta l’Europa, entità ectoplasmatica ma comunque reale. Paradossalmente sarà proprio l’Europa chiamata a scrivere una pagina assai importante della storia cinese.
In ballo non c’è una semplice questione semantica. Ci sono dazi sulle merci cinesi che cadrebbero, qualora la qualifica MES (market economy status) venisse riconosciuta alla Cina, e quindi profondi impatti sulle produzioni europee che molti immaginano persino peggiori rispetto a quelle osservate con l’ingresso nel WTO. Ci sono effetti politici internazionali non trascurabili, con gli USA a scoraggiare l’UE dal fare un passo così controverso, in ciò echeggiando i numerosi movimenti più o meno nazionalisti ostili. Ci sono effetti politici interni, con alcuni paesi europei favorevoli e altri contrari.
Lo stato di NME, infatti, ha un ruolo determinante quando si tratta di valutare i procedimenti antidumping, che la Cina ha collezionato in questi anni, visto che consente di utilizzare metodologie di analisi diverse rispetto a quella basata sulla semplice struttura dei costi interni per misurare i margini di dumping. Ciò nel presupposto che i costi interni siano tenuti artificialmente bassi grazie al sussidio pubblico (si pensi al caso dell’acciaio). Sicché in questi quindici anni molti prodotti cinesi, proprio in virtù dello status NME di quest’economia, sono stati considerati fonte di dumping e soggetti a dazi. Una situazione che non ha mancato di alimentare le discussioni fra la Cina e l’UE, essendo peraltro la Cina il secondo maggior partner commerciale dell’Unione dopo gli USA.
Rimane il fatto che i nodi conseguenti alla decisione del 2001 di ammettere la Cina nel WTO sono infine venuti al pettine. E questo accade nel periodo di minor consenso possibile nei confronti della globalizzazione. L’appuntamento dell’UE, in tal senso, è molto più di una semplice decisione tecnica. È l’ennesimo pretesto per capire se la nuova globalizzazione finirà da dove era cominciata quindici anni fa.
In fondo sarebbe perfettamente logico.
Pubblicato sul blog dell’autore il 21 novembre 2016.