La scelta di Martin Schulz di lasciare il Parlamento europeo non è una bella notizia per l’Europa. Non perché nel Parlamento non ci siano persone in grado di sostituirlo, ma perché appare come una rottura grave in un processo di avvicinamento del Parlamento ai cittadini che era stato avviato qualche anno fa.
Questa scelta è anche la conferma che se nel Parlamento mancano una maggioranza ed una minoranza vere, anche sul piano istituzionale, questa fondamentale istituzione europea non sarà mai davvero vicina ai cittadini, che non capiscono, non possono capire, che fine fa il loro voto.
Schulz era stato tra i protagonisti della novità lanciata quattro-cinque anni fa: la scelta “diretta” da parte dei cittadini del presidente della Commissione europea, attuata attraverso la nomina del leader del partito europeo che raccoglie più voti alle elezioni europee. Può essere un sistema discutibile, perché non indicare un leader espressione di una maggioranza parlamentare anziché del singolo partito, ad esempio. Ma per poter arrivare ad una soluzione in breve tempo, che soprattutto fosse accolta dai governi, i veri depositari di questo potere a norma dei Trattati, questa fu la soluzione trovata.
Nel primo esperimento vinse il Ppe, e il suo candidato leader Jean-Claude Juncker diventò presidente della Commissione europea. Come compensazione Martin Schulz, che già era presidente uscente del Parlamento, fu confermato (cosa mai accaduta prima) per un altro mandato, sosa mai accaduta prima.
Ora Schulz lascia la politica europea e sceglie quella nazionale. Scelta legittima per ogni politico, ovviamente, ma lui nel 2014 si presentò a tutti i cittadini europei come candidato alla Commissione, e tramite i partiti aderenti al Pse fu votato in ogni Paese: dagli italiani, dai greci, dai portoghesi, dai britannici, dai francesi, oltre che dai tedeschi, ovviamente. In una democrazia normale sarebbe stato il capo dell’opposizione, e sarebbe dovuto restare in Parlamento per almeno tutto il quinquennio previsto, fino al 2019.
Invece se ne va. Lo può fare anche perché lui non è il capo dell’opposizione, semplicemente perché un’opposizione non c’è, al Parlamento europeo. Ci sono le maggioranza variabili, che alcune volte, è vero, vedono i due maggiori gruppi, Ppe e Pse contrapposti, ma molto spesso uniti. Alle volte lo devono essere per poter favorire un fronte forte nel Parlamento (colegislatore con il Consiglio europeo) per contrastare i governi, e i risultati sono spesso molto positivi.
Nell’Aula di Strasburgo però non c’è una maggioranza che elegge, ad esempio, il presidente, contrapposta ad un’opposizione che vota un’altra/un altro candidata/o. C’è, da sempre, il blocco centrale composto da popolari, socialisti e liberali, che raggruppa una larga maggioranza e si divide gli incarichi più importanti, alcuni a turno, come la presidenza dell’Assemblea, e poi ci sono i gruppi della destra, della sinistra, dei non iscritti, che si votano ognuno il proprio candidato, senza alcuna speranza di vederlo eletto.
Quello che avviene nel Parlamento i cittadini non lo possono capire, anche perché non è così che dovrebbe funzionare, e dunque ogni tentativo di coinvolgere gli elettori sta fallendo, nel senso che alle urne ci va sempre meno gente. Che ci vanno a fare, se non capiscono cosa ne sarà del loro voto e soprattutto se la sensazione è che il loro voto alimenta un sistema prestabilito in maniera, sostanzialmente, extraparlamentare?
Un sistema che, in epoca di evidente sfiducia dei cittadini della politica tradizionale non può che alimentare le forze più euroscettiche, antisistema le populiste, proprio quelle che la politica tradizionale vorrebbe contenere. Un sistema che non aiuta il rilancio dell’Unione europea.