di Flavio Brugnoli
Una settimana dopo l’elezione di Donald Trump quale 45esimo presidente degli Stati Uniti, l’Europa s’interroga sui programmi dell’inatteso (dai più) nuovo inquilino dalla Casa Bianca per i prossimi quattro anni. Dalle sue esternazioni prima del voto, non di rado sconcertanti, dalle sue prime dichiarazioni da President-elect, in parte più moderate, dalle prime indiscrezioni sulle nomine nel suo cabinet team si cerca di delineare le prime ipotesi sulla sua futura politica estera.
Intanto il mondo si appresta a salutare Barack Obama, un presidente che ha suscitato grandi simpatie e aspettative negli europei – pensiamo al premio Nobel per la pace nel 2009 –, che aveva impostato la sua presidenza sulla centralità del Pacifico (il “pivot to Asia”), che si è dovuto poi confrontare con crisi e scenari molto diversi: Libia, Ucraina, Siria, migranti. Crisi che hanno in parte oscurato i successi di Obama: l’accordo con l’Iran sul nucleare, il varo della riforma dell’FMI, l’accordo di Parigi sul clima, la riapertura dei rapporti con Cuba.
Con Hillary Clinton avremmo avuto una presidente con una grande, anche se controversa, esperienza in politica estera – nelle sue memorie, Hard Choices, ricorda che, da segretario di Stato, visitò ben 112 paesi. Ma è il miliardario Donald Trump che – dopo una dura competizione dentro e contro il Partito Repubblicano – arriva alla guida degli USA, forte del suo non essere “un politico”: uno che non ha mai avuto cariche istituzionali o militari, ma ha saputo intercettare umori, paure e aspirazioni di una parte della società americana spesso lontana dai riflettori dei media.
Trump partirà da una posizione solida: per almeno un biennio avrà una maggioranza repubblicana sia al Senato (di stretta misura) sia alla Camera dei Rappresentanti. Vedremo se il Partito Repubblicano si ricompatterà, rinvigorito dal successo elettorale. Ma non va mai dimenticato che, nel sistema di “governo separato” americano, il Senato gode di forza e autonomia con pochi eguali in altre istituzioni analoghe, mentre importanti decisioni dell’esecutivo devono essere adottate a maggioranze qualificata, di cui i repubblicani non dispongono.
Nella campagna elettorale è emerso con forza il tema dei “perdenti della globalizzazione”, delle diseguaglianze imputate alla crescente apertura e interdipendenza dei mercati. Trump ha preso posizioni fortemente protezionistiche, contro i trattati commerciali e la concorrenza da essi favorita, che brucerebbe posti di lavoro. Vuole rinegoziare il NAFTA, nel Nord America, abbandonare il TPP, nell’area transpacifica, e anche il controverso TTIP con l’UE. Un trattato a volte criticato perché giudicato troppo favorevole agli USA verrà forse ripudiato dagli USA stessi.
La chiusura protezionistica è un errore già fatto dagli Stati Uniti negli anni ’30 del secolo scorso, con costi disastrosi. Se perseguita con cieca ostinazione, aumenterebbe i rischi di recessione globale. Ma certe posizioni, buone per raccogliere voti, non tengono conto di come produzione e finanza siano ormai interdipendenti e ridisegnino gli equilibri mondiali: è ipotizzabile una guerra commerciale con la Cina, che detiene due terzi delle proprie riserve in titoli americani?
Trump si è presentato agli elettori anche con un piano di (necessari) investimenti infrastrutturali, di tipo keynesiano. Ma il nuovo presidente vuole sia aumentare la spesa sia ridurre le tasse: la ricetta di Ronald Reagan, che fece esplodere il debito pubblico. Ed è noto come il tetto al debito pubblico sia stato terreno di scontro fra Obama e il Congresso a maggioranza repubblicana. Se la politica monetaria diventerà restrittiva – Trump ha molto criticato il quantitative easing della Federal Reserve – i costi per l’Europa potrebbero essere pesanti.
Nel campo della difesa Trump è portatore di una visione neo-isolazionista, niente affatto estranea ai repubblicani: George W. Bush, nel 2000, vinse le elezioni su una piattaforma analoga, critica con l’interventismo di Bill Clinton. Un’agenda poi stravolta dagli attentati dell’11 settembre 2001 e dalla “guerra al terrore”. Che ha portato gli USA del post-guerra fredda in una dimensione nuova, in cui la politica estera si lega inestricabilmente alla necessità di garantire la sicurezza interna.
Un tema caldo con la presidenza Trump sarà quello del ruolo della NATO. Trump ha minacciato – rivolto anche a Giappone e Corea del Sud – di non difendere chi non contribuirà adeguatamente ai costi della difesa comune. Una impostazione che rischia di minare alla radice il principio su cui si basa l’Alleanza (l’attacco a uno è attacco a tutti i membri). Ma anche Obama, pochi mesi fa, non aveva esitato a definire «scrocconi» (‘free rider’), in materia di difesa, certi paesi europei.
L’Europa ha le risorse economiche, tecnologiche e militari per dotarsi di un proprio apparato di difesa. La stessa crisi economica dovrebbe spingere a usare meglio e insieme le risorse disponibili. Con Trump l’Europa non avrà più alibi, almeno per rafforzare, in un primo tempo, il pilastro europeo della NATO. Ma con la consapevolezza che anche la NATO vive una fase molto delicata, con la svolta autoritaria della Turchia (paese chiave anche sul fronte dei migranti).
L’altro tema chiave sarà quella dei rapporti con la Russia di Putin, che ha suscitato dubbi e apprensioni nella campagna di Trump. La guerra in Siria è oggi l’epicentro del sisma: probabile che il presidente Trump cerchi un accordo con la Russia per salvare Assad ed eliminare l’ISIS, in nome della lotta al terrorismo. L’Europa con la Russia continuerà a lavorare sul doppio binario – che rasenta l’ossimoro – “difesa e dialogo”. Ma dovrà contrastare il ritorno ad accordi fra USA e Russia sopra la nostra testa, con il riconoscimento di nuove (vecchie) “sfere d’influenza”.
In tema di “ritorni al passato”, Trump si era espresso con favore verso Brexit, ricambiato nell’attenzione dalla primo ministro Theresa May e da Nigel Farage. Ma per l’Europa è il tempo dell’unità, non della corsa a farsi belli col nuovo presidente. La EU Global Strategy e lo Implementation Plan on Security and Defence, dell’Alto rappresentante Federica Mogherini, rappresentano le mappe su cui lavorare, per dare vita al nucleo di una difesa comune europea.
La politica di Trump sarà sotto il segno dell’America First. Il multilateralismo non sarà più il pilastro di una lungimirante leadership americana, ma rischia di essere visto come un ostacolo all’affermazione degli interessi americani. Ed è qui che, a medio termine, la presidenza Trump potrebbe produrre i guasti più profondi, se volesse puntare, a differenza di Obama, a indebolire le istituzioni multilaterali – ONU, FMI, WTO, NATO, G7/G20 –, a vantaggio di rapporti bilaterali.
Potrebbero essere rimessi in discussione grandi passi avanti compiuti su alcuni “beni pubblici globali”. In questo un posto di primissimo piano ce l’ha l’accordo sul clima, firmato a Parigi nel dicembre 2015. Sappiamo che Trump si è presentato come “negazionista” sul tema del climate change. Un terreno su cui l’UE è all’avanguardia e dovrà continuare ad esserlo. E un ruolo chiave nel difendere l’accordo potrebbe averlo proprio la Cina, impegnata nella lotta all’inquinamento.
Con Trump gli europei e l’UE potranno contare sempre meno sulla sponda americana, anche se l’alleanza con gli Stati Uniti rimarrà importante. Gli europei saranno chiamati a “diventare adulti”. Anche in Europa si scontreranno due visioni, una più aperta e integrazionista e una di chiusura e nazionalista – che in Trump cercherà di avere un campione e un alfiere. Ma ai problemi del XXI secolo – Trump incluso… – non si risponde con soluzioni da XIX secolo, bensì unendo le forze, le risorse e le intelligenze, in un’Europa capace di darsi finalmente un’Unione politica.
Pubblicato sul sito del Centro Studi sul Federalismo il 16 novembre 2016.