Sono appena tornato da una missione straordinaria in Turchia con altri colleghi del Partito socialista europeo, per portare la nostra solidarietà a Selahattin Demirtas, leader del partito curdo di opposizione HDP, e agli altri deputati messi in cella da Erdogan lo scorso 4 novembre. Siamo arrivati fino al carcere in cui è stato portato, a Edirne, al confine con la Bulgaria, quindi a centinaia di chilometri dalla sua famiglia e in una zona sperduta.
Come avevamo previsto, io e i colleghi del PSE non abbiamo ottenuto l’autorizzazione per visitarlo. Inoltre, le forze di sicurezza turche ci hanno ripetutamente intimato di non parlare con la stampa, il che ovviamente non ci ha fermati dal dichiarare ai vari media presenti la nostra ferma condanna al recente operato di Erdogan. Essere presenti sul posto ci ha permesso di mostrare anche ai leader del partito HDP e ai deputati detenuti che non sono dimenticati, anzi, l’Europa guarda a quanto sta accadendo in Turchia con estrema attenzione e preoccupazione.
Durante il breve soggiorno, siamo riusciti anche a visitare la redazione del quotidiano Cumhuriyet, il cui direttore è stato arrestato a fine ottobre, dopo che l’ex direttore era stato condannato a oltre 5 anni di carcere per aver condotto inchieste su un presunto traffico di armi tra componenti del governo turco e l’ISIS. Per finire, abbiamo avuto un colloquio privato con alcuni membri del CHP, il maggiore partito di opposizione.
Le impressioni raccolte in questo breve viaggio sono state molto forti, abbiamo toccato con mano gli effetti della stretta di Erdogan sugli oppositori veri e presunti dopo il golpe del 15 luglio scorso e, soprattutto, abbiamo ascoltato la forte richiesta di questi ultimi all’Europa di non abbandonarli, di non tagliare i ponti con Ankara, per evitare di lasciare mano libera al governo turco sull’abuso dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Mentre scrivo queste righe, il Parlamento europeo sta discutendo della possibilità di “congelare” temporaneamente il negoziato per l’accesso della Turchia all’Unione europea. Un segnale chiaro del fatto che l’Europa, pur non chiudendo del tutto la porta, non può più restare a guardare mentre un governo ad essa geograficamente vicino mette in carcere i membri del suo stesso Parlamento, decine di giornalisti, oppositori politici, giudici, sindaci, per non parlare del conflitto armato nel Sud-Est curdo, fatto di cui ci occupiamo troppo poco.
La Turchia non può ricattarci ad libitum con la minaccia di riversare migliaia di migranti sulle nostre coste. Vi sono dei limiti da non superare, e sono stati ampiamente superati. Ma associare le azioni di Erdogan al destino politico di un intero popolo sarebbe sbagliato: per questo dobbiamo continuare a mostrare la nostra vicinanza a chi si oppone a quello che possiamo ormai chiamare a tutti gli effetti un regime.