Raggiungo l’appartamento di Daniele Napodano che si trova in una maison d’epoca nel centro di Bruxelles. In realtà le scale di legno che portano fino al terzo piano – con quadri e arredi sulle pareti – sembrano più di una di quelle case di Parigi che si vedono nei film, dove vivono pittori e artisti. Lui è un musicista e cantautore di Roma, ma di origine campane che, dopo aver girato un po’ ovunque, si è trasferito ormai da un paio d’anni in pianta stabile nella “Capitale d’Europa”. Oltre a suonare quasi tutte le sere in diversi locali della città, Daniele insegna musica nella zona di Waterloo. Dopo averlo seguito e sentito cantare già diverse volte, gli ho chiesto se poteva dedicarmi una mattinata e rilasciarmi una breve intervista per raccontarmi un po’ la sua storia artistica.
Daniele, quando ti vedo suonare le tastiere ho l’impressione che letteralmente “domini” lo strumento. Come hai imparato a suonare in questo modo così “passionale” e com’è diventato il tuo mestiere?
In realtà non ricordo un momento della mia vita in cui posso dire di aver imparato a suonare. In famiglia la musica si respira da generazioni e mi hanno messo davanti a un pianoforte sin da piccolissimo. Mi sono ritrovato così a suonare spontaneamente, senza particolari studi, come accade invece normalmente alla maggior parte degli artisti. All’inizio ho lavorato dieci anni nell’ambito della postproduzione cinematografica (doppiaggio, colonne sonore etc.). Parallelamente però ho anche sempre suonato, finché un giorno ho deciso che era “quello che volevo fare da grande” e mi sono dedicato a tempo pieno a scrivere musica e a suonare, per guadagnarmi da vivere.
Perché sei venuto a vivere e a lavorare proprio a Bruxelles?
Diciamo che in Italia, dopo vari tentativi, non ho mai trovato un ambiente favorevole al mio sviluppo artistico. Già a vent’anni, quindi, ho iniziato a girare fuori dai confini dell’Italia, suonando in diverse città d’Europa, anche per lunghi periodi. Bruxelles è stata una scelta dettata dal fatto che qui si parla il francese, a differenza ad esempio di altre possibili alternative come Amsterdam che, pur avendo una vita notturna parimenti molto interessante e viva, era più ostica dal punto di vista linguistico. Io e la mia compagna, che insegna, abbiamo quindi deciso che per noi questa città faceva più al caso nostro, per un inserimento più veloce e devo dire che le cose stanno andando molto bene per entrambi, lavorativamente parlando.
Durante le varie serate ho visto che oltre a pezzi famosi proponi anche un repertorio personale. Hai sempre scritto canzoni tue o è un processo creativo recente?
In realtà qualcosa avevo già scritto anche quando ero molto giovane, ma è negli ultimi due anni che mi sono concentrato su questo aspetto. A un certo punto, da due anni a questa parte, ho iniziato a riadattare i pezzi che più amavo della musica di qualsiasi genere (rock, pop, jazz) al mio stile, trasformandole in un certo senso in qualcosa di più personale e, soprattutto, ho iniziato a scrivere dei brani nuovi di zecca.
Avremo la possibilità di ascoltare un giorno un disco completamente tuo?
Sì è assolutamente in programma, ho già 12 tracce pronte, di cui una parte le suono già dal vivo. Quando entrerò in studio ho già le idee ben chiare: una produzione molto semplice, con pochi strumenti per lo più suonati da me, a parte le chitarre e poco più. Non credo che impiegherò molto a inciderlo perché conosco già le canzoni molto bene e scriverò io stesso (a mano come si faceva una volta) gli spartiti per chi dovrà suonare. Ho comunque già un’idea sui nomi delle persone che suoneranno sul mio disco, anche se non ho ancora preso una decisione definitiva. Posso solo dirti che si tratta comunque di artisti molto bravi.
Chiudo dicendo che secondo me la tua musica è “ironicamente malinconica” nel senso che sia i testi che l’interpretazione sembrano a prima vista leggere, ma poi scavando si intravede una certa tristezza e inquietudine. Ti ritrovi in questa mia “definizione”?
Devo dire che hai colto perfettamente nel segno. In fondo la vita di tutti noi è un po’ così: agrodolce, e le nostre gioie sono spesso il frutto di periodi, anche lunghi, di sofferenza. Tutto questo in qualche modo traspare nelle mie canzoni come ad esempio “Sarà la libertà” e altre che iniziano a piacere al pubblico che mi segue. L’ironia è sempre necessaria per superare le amarezze, ma è solo un modo per esorcizzarle, non certo per eliminarle. Probabilmente la cultura partenopea che ho respirato in casa ha avuto una certa influenza sul mio carattere e inevitabilmente questo si riversa sulla mia arte.