Questo articolo riassume la proposta elaborata da Francesco Nicoli nel suo paper “From Governance to Government? Engineering a progressive and smooth transition towards a Genuine Monetary Union”, vincitore della “call for papers” sul futuro dell’eurozona indetta da Eunews in occasione della della terza edizione di How Can We Govern Europe?, la tavola rotonda di alto livello organizzata da Eunews sotto l’egida della Commissione europea e del Consiglio dei ministri italiano, che si terrà a Roma il 17-18 novembre 2016.
di Francesco Nicoli
A primavera 2015, Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, annunciò un (all’epoca non meglio specificato) piano per costruire progressivamente, “entro il 2025”, una genuina Unione economica e monetaria dotata, tra le altre cose, di un pilastro sociale e una “tesoreria” della zona euro. L’annuncio costituì, per molti, il segnale che la nuova Commissione aveva ripreso il cammino interrotto nel 2012, quando poco o niente (in termini di governance) aveva seguito il rapporto presentato dall’allora Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy.
Ai bei progetti presentati (a sorpresa di molti, vista la natura in teoria intergovernativa del Consiglio europeo) da Van Rompuy, aveva seguito un atteggiamento di generale diniego da parte degli Stati membri profondamente divisi tra loro ed esitanti a introdurre ulteriori misure d’integrazione economica; la servizievole Commissione Barroso, a termine mandato e incapace di prendere l’iniziativa al riguardo, si era adeguata senza troppi sforzi.
Nel bene e nel male, la Banca centrale europea si era trovata così a dover essere l’unica istituzione dell’Unione in grado di arginare la crisi: con il famoso “whatever it takes” di Mario Draghi, operazionalizzato dall’OMT prima e dal quantitative easing poi, la BCE è riuscita a costruire un argine in grado di fermare, apparentemente, il flusso circolare tra debolezza del sistema bancario e dei debitori sovrani. Nel lungo termine, però, la BCE non può farsi carico delle responsabilità fiscali dei governi: il suo margine di manovra, come recentemente sentenziato dalla Corte costituzionale tedesca, termina nel momento in cui l’inflazione sarà sufficientemente alta da richiedere un aumento dei tassi d’interesse. Né possono molto i primi due pilastri dell’Unione bancaria europea, mancanti – come sono – di un pilastro fiscale in grado di sostenere i correntisti in caso di corsa agli sportelli. In altre parole, la sfida per i governi dell’eurozona a costruire un sistema fiscale congiunto era (e resta tuttora) solo rimandata.
In questo scenario, il piano proposto da Juncker nel 2015 è rimasto, fino ad oggi, lettera morta. D’altra parte le difficoltà nel passare da un semplice coordinamento sul fronte dei deficit pubblici a una vera unione fiscale ed economica sono numerose e quasi insormontabili; una vera unione fiscale non può fare a meno di un elemento di solidarietà tra cittadini di Stati membri con diversi livelli di reddito, solidarietà che rimane legalmente e filosoficamente irraggiungibile in assenza di una identità comune ai diversi popoli dell’Unione.
Il problema è quindi il seguente: come costruire un sistema di transizione che, partendo da alcuni elementi in comune, aumenti il livello di coordinazione e integrazione economica accrescendo, allo stesso tempo il senso di responsabilità e identità comune tra popoli europei? Da un lato, è necessario costruire un sistema che permetta agli Stati meno avanzati di fare catching-up, cioè raggiungere il livello economico dei paesi chiave dell’Unione monetaria, come Germania ed Olanda. D’altra parte, affinché tale progresso venga supportato, anche finanziariamente, dai paesi core, è fondamentale che si strutturi su un framework di regole certe e con chiare responsabilità in termini di gestione economica e fiscale dei paesi coinvolti. Il tutto, garantendo un equilibrio tra responsabilità da un lato, e solidarietà dall’altro.
La proposta (ispirata da un lavoro pregresso condotto nel 2014 assieme a Luigi Bonatti), qui presentata per sommi capi ma discussa nel dettaglio sia in un policy paper per il Centro Studi sul Federalismo che in maniera più teorica sulla rivista scientifica Political Economica – Journal of Economic Policy, suggerisce di strutturare la “lunga transizione” verso il 2025 e la Tesoreria europea creando una Procedura europea di bilancio (Joint Budgetary Procedure). La base legale per tale procedura già esiste, non solo negli articoli 121 e 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (su cui già oggi il Semestre europeo è basato), ma anche negli (spesso dimenticati) articoli 9-13 del fiscal compact, che garantiscono agli Stati membri la base legale per procedere con maggiore integrazione economica e fiscale qualora lo desiderino.
La procedura di bilancio comune che suggeriamo propone di “scorporare” dalle leggi di bilancio nazionali alcuni capitoli di spesa: in particolare, “capitoli di spesa congiunta” e “capitoli di spesa coordinata”. Partiamo dal secondo. Vi sono determinate voci di spesa, nel bilancio di ogni paese, che necessitano di essere coordinate: sia tra paesi dell’Unione (per esempio per evitare che le misure di un paese abbiano effetti negativi in un altro paese) sia tra un determinato paese e il resto dell’Unione (per esempio, nel caso in cui un paese sia nella condizione/necessità di dover effettuare politiche di convergenza verso il resto dell’Unione). In questi casi, è ottimale per tutte le parti coinvolte coordinare il processo al meglio. I capitoli di spesa coordinata, in altre parole, ancorerebbero il processo già oggi presente nel Semestre europeo all’interno di una specifica parte della legge di bilancio nazionale, garantendo una maggiore chiarezza e trasparenza. Ora, uno dei problemi centrali del Semestre europeo è l’assenza di formali strumenti di supporto al processo di riforma, anche se l’utilizzo delle misure di flessibilità introdotte da Juncker va precisamente in quella direzione. Avere una sezione del bilancio nazionale dedicata all’attuazione delle misure di coordinamento facilita grandemente l’utilizzo della flessibilità.
D’altra parte, è importante sottolineare come – in assenza di una vera unione fiscale – la gestione economica rimanga a livello nazionale, tranne laddove vi sia accordo sull’importanza fondamentale del coordinamento. La proposta quindi suggerisce che l’intero ammontare dei capitoli di spesa effettuati sotto la sezione del Bilancio Coordinato sia soggetto alla clausola di flessibilità (ovviamente entro un limite che dovrebbe però essere oggetto di discussione politica di anno in anno). Naturalmente, per garantire che a maggiore solidarietà (non solo la flessibilità qui discussa, come si vedrà tra poco) corrispondano maggiori responsabilità, è necessario istituire meccanismi di controllo, sia ex-ante che ex-post. Ex ante, proponiamo che le voci di spesa per la sezione “spesa coordinata” del bilancio nazionale vengano proposte dalla Commissione nella forma di specifiche Raccomandazioni; l’iniziativa per “candidare” possibili riforme dovrebbe essere lasciata aperta all’interno del processo del Semestre europeo, permettendo sia agli Stati membri di suggerire aree in cui vorrebbero richiedere la coordinazione al momento della presentazione dei National Reform Programmes ad aprile, sia alla Commissione stessa (possibilmente sulle basi dell’Annual Growth Survey, il documento di indirizzo economico dell’Unione). Ex post, il Commissario europeo all’Unione monetaria potrebbe evolvere (per lo meno nel breve termine) in una forma “soft” di ministro delle finanze europeo. Se, nel complesso, la sezione “spesa coordinata” del budget di uno Stato è confacente alle promesse, viene garantita la flessibilità (e quindi il contestuale aumento del deficit nei capitoli di spesa non coordinati). Altrimenti, lo Stato è comunque libero di procedere come intende con la propria politica economica, ma il suo budget sarà soggetto al patto di stabilità nella sua interezza.
In alcuni casi, invece, una forma di solidarietà più diretta può essere necessaria, ad esempio in cui uno Stato sia colpito da crisi di una particolare entità, in cui l’Unione si dia degli obiettivi comuni da raggiungere congiuntamente, e in caso di emergenze specifiche. La proposta suggerisce quindi di creare una seconda sezione di spesa, racchiudente i “capitoli di spesa congiunta”. Il processo decisionale corrisponderebbe a quello descritto precedentemente, ma le risorse per far fronte a tali spese sono a propria volta coordinate a livello Europeo, sia mediante fondi ad hoc per specifiche emergenze o progetti (si pensi al Fondo europeo per gli investimenti strategici, creati nel 2015, oppure ad eventuali contributi per la gestione dei flussi migratori), sia mediante voci di spesa “congiunte” (si pensi, ad esempio, alle diverse proposte di costruire una “garanzia europea contro la disoccupazione”).
Inoltre, in determinati ambiti, gli Stati potrebbero decidere di non utilizzare strumenti di spesa congiunti, ma di organizzare congiuntamente la spesa nazionale in un determinato ambito in vista di maggiore coordinazione futura (si pensi, ad esempio, alla politica di difesa o ambientale, oppure, più banalmente, a progetti che hanno un maggiore effetto solo se introdotti a livello europeo, come ad esempio la costruzione di una rete europea di fast charging per auto elettriche). In questo senso, i fondi già esistenti potrebbero essere utilizzati per co-finanziare tali voci di investimento, e ulteriori garanzie all’eventuale debito emesso per tali spese potrebbero venire dal “fondo Juncker” (o da una sua evoluzione). In entrambi i casi, se risorse europee venissero utilizzate, sarebbe necessario il coinvolgimento del Parlamento europeo. Attraverso il meccanismo delle garanzie al debito emesso per determinati scopi si potrebbe anche, nel medio termine, pensare a una riforma dell’ESM (European Stability Mechanism) che si faccia carico di garantire la solvibilità dei titoli emessi specificatamente a copertura dei progetti congiunti in questa sezione del bilancio.
Strutturare il bilancio di ogni paese su questi tre pilastri (spesa coordinata, spesa congiunta e la restante spesa “nazionale”) non costituirebbe, ovviamente, una vera unione fiscale con un budget proprio per finanziare veri “beni comuni” europei. Nel lungo termine però (come previsto da Juncker, verso il 2025) queste misure potrebbero evolvere facilmente da accordi quasi-formali quali quelli presentati qui (basati su legislazione secondaria e largamente dipendenti dalla buona volontà politica, sia domestica che a livello europeo) verso una costituzionalizzazione ancorata in una riforma dei trattati. Sebbene una riforma dei trattati oggi appaia impensabile, il meccanismo descritto preparerebbe il terreno in maniera decisiva in tal senso, abituando i vari stati a considerare la gestione degli affari economici come cosa congiunta: dopo un decennio di coordinazione sempre più stretta, è plausibile che sembri semplicemente naturale che determinate politiche vengano svolte a livello europeo, specialmente laddove si tratti di “spesa congiunta”.
Le voci di spesa congiunta diventerebbero, di fatto, gli elementi fondamentali di una spesa in “beni pubblici europei”; i titoli senior, garantiti dal EFSI e possibilmente dall’ESM, potrebbero rapidamente costituire una forma di eurobond; il ministro delle finanze europeo potrebbe entrare a pieno diritto come figura “costituzionale”; con una revisione dei trattati, infine, parte del processo (specialmente in termini di gestione dei beni comuni europei) richiederebbe sicuramente l’espansione delle responsabilità del Parlamento europeo, garantendo così quindi la democraticità dell’intero assetto costituzionale dell’Unione.