di EuVisions, a cura di Carlo Burelli e Alexander Damiano Ricci
Tempi difficili per i trattati commerciali
Su Social Europe, Steven Hill osserva che gli estensori dell’accordo CETA e di altri trattati commerciali simili sono ormai completamente screditati agli occhi dei cittadini. La pressione che la Vallonia e il suo apparato politico – sul banco degli imputati per aver ridicolizzato l’UE a livello globale – hanno subìto suggerisce che in questo argomento, per quanto semplicistico, vi sia un fondo di verità, ma porta anche a interrogarsi su quanto abbiamo imparato dal dibattito sui “vincitori e vinti della globalizzazione”. Jorgo Riss (Euractiv) invece sottolinea come la credibilità dell’UE dipenda non già dall’approvazione del CETA, ma dal rispetto degli impegni presi con i cittadini europei e contenuti nei trattati. Democrazia, rule of law, progresso economico e sociale, sviluppo sostenibile e salvaguardia dell’ambiente sono tutti valori chiave per la credibilità dell’UE.
Su Bruegel, Silvia Merler propone una rassegna delle analisi e dei commenti sul tema CETA. Secondo Cecilia Bellora e Jean Fouré l’accordo prova ad affrontare temi sensibili in un approccio di equità e reciprocità, ma questo non è tuttavia sufficiente a generare sufficiente sostegno popolare. Anche Dani Rodrik riconosce che ormai al trattato CETA vengono attribuite nefandezze di ogni sorta, in alcuni casi immeritate. Questo a causa del comportamento delle élites, che hanno sbandierato i vantaggi complessivi dell’accordo nel tentativo di far passare sotto silenzio i timori sugli effetti distributivi. Secondo Amandine Crespy (Europp, LSE) la vicenda CETA è una prova dell’instabilità democratica dell’UE: ristabilire il primato della sovranità nazionale in ambito di accordi commerciali implica di fatto un diritto di veto a livello dei singoli Stati. Bob Hancké sostiene che il voto di Namur non va preso sottogamba, e che lo scontento popolare nei confronti degli effetti della globalizzazione si sta rafforzando.
Sul Financial Times Alan Beattie osserva che per come si sono svolte, le trattative per il CETA illustrano perfettamente i rischi insiti nel concedere potere di veto ai parlamenti nazionali su materie di interesse europeo.
Neoliberalismo e UE
Secondo Thomas Fazi (Social Europe) si sente spesso ripetere che la soluzione alla crisi europea passa attraverso una maggiore integrazione: tuttavia una Unione davvero democratica dovrebbe affrancarsi dall’ideologia neoliberale, dal momento che molte delle attuali storture derivano proprio dall’applicazione cieca di tale paradigma da parte delle istituzioni europee. Molte delle critiche provenienti dalla società civile – inizialmente ignorate dai governi e dagli accademici mainstream – oggi sono sempre più condivise, persino da organizzazioni quali l’FMI. In contrasto con questo punto di vista, Philip 1Geddes su Euractiv osserva che a seguito della Brexit l’Unione risulterà certamente «meno neoliberale», ma questo non necessariamente sarà un bene: venuto a mancare il polo finanziario londinese, il baricentro finanziario mondiale si sposterà verso New York, implicando minori margini di controllo da parte europea.
Thanos Skouras (Social Europe) osserva che è stata di fatto abbandonata una utile proposta – contenuta nel Five Presidents’ Report – che auspicava la costituzione di un organismo nazionale di valutazione della competitività, che avrebbe potuto giocare un ruolo di chiave nelle procedure per deficit eccessivo. Alla fine si è optato invece per una valutazione della produttività: ciò può rivelarsi nel migliore dei casi inutile, e nel peggiore perfino dannoso, dal momento che concentrarsi sulla produttività invece che sulla competitività potrebbe ulteriormente incoraggiare politiche di austerità e distorcere la già traballante architettura della moneta unica.
Pubblicato su EuVisions il 2 novembre 2016.