Bruxelles – Nella polemica scoppiata (ma da mesi covava sotto la cenere) fra Roma e Budapest, che ha visto l’intervento diretto ed esplicito del premier ungherese Victor Orban e la risposta di quello italiano Matto Renzi, non c’è solo uno scontro fra due diversi interessi nazionali, ma anche fra due visioni diverse dell’Europa, dei suoi valori fondanti e dei suoi obiettivi, della solidarietà fra i suoi Stati membri, e del rapporto con l’immigrazione e in particolare con i rifugiati.
Orban annuncia che continuerà a mettere il veto all’accoglimento delle quote di rifugiati, provenienti da Italia e Grecia, che l’Ue ha assegnato all’Ungheria con la controversa decisione sulle “relocation” (ricollocamenti); Renzi replica che, se questo è il caso, alla mancanza di solidarietà di Budapest risponderà mettendo il veto al bilancio comunitario, quando si tratterà di finanziare i fondi Ue per l’Ungheria. Ma, indipendentemente dalla validità delle ragioni di ognuno, dal punto di vista puramente giuridico uno dei due ha il diritto di porre il veto, l’altro no.
Il Trattato di Lisbona sul Funzionamento dell’Ue stabilisce che nei settori in cui l’Unione ha una “competenza concorrente” con quella dei paesi membri, gli Stati “esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria” (Art. 2). Il Trattato stabilisce anche che lo “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, di cui fa parte la politica d’immigrazione e asilo, è fra i settori sottoposti a “competenza concorrente”, alla stessa stregua, ad esempio, del mercato unico, dell’ambiente, o della protezione dei consumatori (Art.4). Inoltre, secondo l’art. 67, l’Unione deve sviluppare “una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere esterne, fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi”.
Una “politica comune” significa che le proposte sono presentate dalla Commissione, approvate dal Parlamento europeo e dal Consiglio Ue a maggioranza qualificata (dunque senza che alcun paese abbia diritto di veto), con valore giuridicamente vincolante per tutti i paesi membri, e attuate sotto il controllo della Commissione, che può lanciare procedure d’infrazione contro gli Stati inadempienti, fino a portarli in Corte europea di Giustizia. L’Ungheria ha firmato e ratificato il Trattato di Lisbona, ed è vincolata a queste norme.
Ora, Orban (insieme ai governi degli altri paesi del gruppo di Visegrad: Slovacchia, Repubblica ceca, Polonia) non riconosce il diritto d’iniziativa della Commissione, nega il valore vincolante della decisione sulle “relocation” presa a maggioranza qualificata dal Consiglio Ue (i ministri dei Ventotto), sostiene che queste decisioni le possa prendere solo il Consiglio europeo (i capi di Stato di governo) e solo all’unanimità. E continua ad annunciare il suo veto. Ma in realtà non ne ha il diritto. Questo, salvo improbabili sorprese, dovrebbe affermarlo anche la Corte europea di Giustizia, quando si pronuncerà sul ricorso che proprio l’Ungheria (insieme alla Slovacchia e con il sostegno della Polonia) ha presentato contro le “relocation” alla più alta giurisdizione comunitaria.
D’altra parte, quando Renzi minaccia, con il suo veto al prossimo bilancio Ue, di prosciugare il finanziamento dei fondi europei assegnati all’Ungheria (e agli altri Stati membri che non accolgono la loro quota di rifugiati dall’Italia e dalla Grecia, violando gli obblighi delle “relocation”), dal punto di vista giuridico si tratta di un ragionamento fondato.
L’esistenza di due tipi di bilancio comunitario, quello annuale e quello programmatico pluriennale (che viene chiamato “Quadro finanziario pluriennale”) ha generato una certa confusione in questi giorni nei commenti alle affermazioni del premier italiano. Se, da una parte, è vero che un solo Paese non può opporsi all’approvazione del bilancio comunitario annuale, che riguarda l’allocazione dei capitoli di spesa ed è sottoposto al voto a maggioranza qualificata in Consiglio, la possibilità per uno Stato membro di porre il proprio veto è prevista invece (ed è stata usato, in passato da altri Paesi, come il Regno Unito e l’Olanda) sul Quadro finanziario pluriennale, che decide le risorse (le entrate) e quindi le contribuzioni finanziarie di ogni Stato membro, per un periodo di programmazione di sette anni.
La discussione sul prossimo Quadro finanziario pluriennale (2021-2027) comincerà fra pochi mesi, come d’altronde ha detto più volte Renzi: nel 2017. Ed è normale che sia così, visto che i negoziati sono lunghi e complessi e tutto deve essere pronto entro il 2020. Il premier italiano, dunque, fa un annuncio che non riguarda il lungo, ma il breve termine, e ha certamente la possibilità concreta di mettere in atto la sua minaccia.
Questo dovrebbe preoccupare, e probabilmente già preoccupa, i dirigenti dei paesi dell’Est, che sono beneficiari netti del bilancio comunitario e che dai fondi Ue traggono grandi vantaggi. Se si guardano i dati del 2013 forniti dalla Commissione Europea, ad esempio, si vede che l’Ungheria trae dagli investimenti europei il 6,3% del proprio reddito nazionale lordo, e che ben il 95% dei suoi investimenti pubblici è co-finaziato dall’Ue.
L’Italia, invece, come Renzi non si stanca di ripetere in questi giorni, è un “contribuente netto” al bilancio comunitario, e ha dunque il diritto alzare la voce. Il premier cita sempre le cifre di 20 miliardi di euro dati all’Ue per 12 miliardi ricevuti. Nel 2013, in effetti, l’Italia ha ricevuto dall’Ue 12,6 miliardi di euro.
Un dato più generale lo ha fornito, sempre nel 2013, la Ragioneria Generale dello Stato, calcolando che il saldo medio annuo per l’attuale periodo 2014-2020 è pari a un deficit di 3,8 miliardi di euro (a prezzi del 2011), lo 0,23% del reddito nazionale lordo. E’ il quarto saldo netto negativo più importante, in termini assoluti, dopo quelli di Germania, Francia e Regno Unito.
Notizia tratta da Askanews