di Gustavo Piga
L’esperienza di questi ultimi otto anni, a seguito della crisi finanziaria del 2008 che l’Europa ha finito per importare più intensamente degli Stati Uniti che l’avevano prodotta, ha creato una crescente convergenza tra studiosi e commentatori sulla necessità di superare l’attuale assetto istituzionale europeo. Le posizioni si dividono tra coloro favorevoli ad un abbandono più o meno completo dell’euro, moneta comune senza Stato, e quelli desiderosi di avviare meccanismi fiscali e di bilancio idonei a incidere sul ciclo e sulla domanda globale.
Gli scenari plausibili per un superamento tecnico dell’euro, salvando l’idea e la prassi di un processo di integrazione, sono politicamente impervi e tecnicamente assai controversi quanto agli scenari successivi. D’altro canto, la flessibilità fiscale che c’è, per come è congegnata, è un velo che nasconde in realtà intatti i rapporti di forza politici ed economici: gli effetti pratici della applicazione del patto di stabilità e crescita e poi del six-pack e del two-pack (regolamenti comunitari) e infine del fiscal compact (trattato internazionale agganciato al diritto comunitario) sono stati devastanti sul piano economico soprattutto per i paesi euromediterranei e l’Europa ha un senso solo se unisce tutti i paesi, le economie e le culture che essi esprimono.
Chi scrive ritiene che gli Stati Uniti d’Europa fondati solo sulla lenta convergenza delle strutture economiche, rivista al margine sulla base di stati di necessità ed urgenza, sono una prospettiva destinata ad implodere, con effetti gravi e duraturi nel tempo: la Brexit ha mostrato quanto concrete e non teoriche siano tali preoccupazioni. Se si riconosce questa dura realtà delle cose, forse è possibile ripartire da un confronto pacato e approfondito sulle linee di riforma del fiscal compact, idonee a rilanciare la crescita.
L’occasione è offerta dall’art.16 del fiscal compact dove è stabilito che entro 5 anni dalla sua entrata in vigore (1/1/2013) le sue norme devono essere oggetto di un processo di inserimento nell’ordinamento comunitario. È dunque del tutto realistico utilizzare questa occasione per realizzare un confronto critico e una profonda revisione delle sue regole che abroghi tutte le norme a valle del Trattato di Maastricht (uniche queste a valenza “costituzionale”), riesamini gli errori commessi e metta in campo un nuovo fiscal compact comunitarizzato. Il criterio di base di questo lavoro dovrebbe essere l’eliminazione dai vincoli di bilancio di tutte le spese pubbliche definite, con cura e precisione, di investimento, secondo regole e monitoraggi costruiti in modo rigoroso a livello comunitario e applicati da organismi comunitari del tutto indipendenti dai governi e dagli apparati nazionali. Per questa quota di investimenti nazionali riconosciuti come spese di investimento (e tra queste dovrebbero rientrare oltre le infrastrutture materiali anche l’istruzione e la ricerca) dovrebbe inoltre risultare agevole costruire forme di copertura comunitaria a debito e/o forme di garanzia diretta e indiretta del bilancio comunitario, a cui occorrerebbe garantire uno zoccolo fiscale europeo più significativo.
È evidente che i diversi punti di vista degli Stati si riproporrebbero anche in questa fase, ma un confronto politico e tecnico, riportato ad una sede solenne e formale che ricrea le basi della convergenza delle politiche fiscali e di bilancio potrebbe rendere chiare le motivazioni e i punti di convergenza e potrebbe servire a trovare, nel fuoco del confronto pubblico, nuove linee di alleanze e visioni che superano l’attuale blocco di controllo, fondato sulla inderogabile convergenza finale dei governi di Germania e Francia. Se appare realistico che gli sviluppi della integrazione non possono farsi contro la Germania e la Francia è infatti altrettanto chiaro che se questi paesi vogliono salvare questa prospettiva, che appare l’unica politicamente e culturalmente all’altezza delle sfide globali del presente, devono uscire da una situazione di mera difesa dell’esistente. Il tempo logora le cose e solo se si anticipano i nodi del futuro c’è speranza di ridare impulso al processo di integrazione. Immigrazione e sicurezza si possono gestire bene anche senza una vera unione politica; la crescita e il lavoro per le generazioni presenti e future hanno invece bisogno di un nuovo contesto regolatorio per le politiche fiscali e di bilancio. Anche perché ripresa dell’occupazione e centralità del lavoro sono la base del futuro possibile di una Europa che si tenga lontana da fiammate nazionaliste e autoritarie.
Pubblicato sul blog dell’autore il 25 ottobre.