Chi ricorda la grande ondata di speranze e di aspettative che aveva accompagnato il cammino verso la Casa del Bianca di quel giovane senatore dell’Illinois poi divenuto il primo Presidente nero della storia degli Stati Uniti? Suscitare speranze e far leva sulla diffusa domanda di cambiamento era il filo conduttore della candidatura di Obama, il cui libro-manifesto non a caso s’intitolava l’Audacia della Speranza – ‘the hopey, changey stuff’ nella declinazione sarcastica della candidata repubblicana alla Vice Presidenza di allora, Sarah Palin.
Ritornando con la mente al clima di quei mesi, l’attesa di una svolta non era solo solleticata da slogan accattivanti quanto un po’ vacui – ‘yes we can!’ – ma era anche il prodotto del senso di smarrimento dell’Amministrazione precedente (di G.W. Bush) ormai al tramonto, che si trascinava stancamente tra le emergenze finanziarie (il crac Lehman Brothers su tutte) e crisi di politica estera (il doppio pantano iracheno e afgano; o la guerra-lampo tra Russia e Georgia, coincisa con la giornata inaugurale delle olimpiadi di Pechino). Pareva naturale, con queste premesse, chiedere al futuro Presidente un’inversione di rotta; e ragionevole attendersi che il nuovo corso si rivelasse migliore di quello che lo aveva preceduto. Ma è stato davvero così?
In parte: limitando alla politica estera l’analisi degli otto anni di Presidenza Obama, il bilancio presenta un quadro di luci e ombre. La portata delle prime non è certo da sottovalutare: l’aggettivo storico non pare fuori ruolo per sottolineare l’importanza delle intese sul nucleare con l’Iran o la riconciliazione con Cuba. Da non sottovalutare anche l’energico cambio di marcia in materia di politiche ambientali, che ha fatto di Washington uno dei sostenitori più accesi di una variegata alleanza che impegnasse l’intera comunità internazionale a far fronte alla sfida globale dei cambiamenti climatici – la buona riuscita, da questo punto di vista, della conferenza di Parigi COP 21 non sarebbe stata possibile senza il contributo attivo di Stati Uniti e Cina, in particolare il loro accordo per la limitazione delle emissioni.
E però anche il più roseo degli scenari non potrebbe disconoscere la prevalenza delle zone d’ombra, che giustificano la percezione di una leadership a stelle e strisce sempre più oggetto di discussione se non di aperto contrasto, nel 2016 con ogni probabilità più di quanto fosse nel 2008.
La contestazione del primato globale degli USA è particolarmente evidente nel caso della Russia, che dall’Ucraina alla Siria non ha esitato a lanciare verso la superpotenza d’oltre Atlantico un guanto di sfida nel tentativo alquanto manifesto, da non prendere sottogamba per quanto possa apparire velleitario, di ripristinare logiche ed equilibri di un’epoca bipolare che si credeva ormai definitivamente superata.
Una tendenza antagonistica meno palese, ma non per questo meno insidiosa si avverte nell’atteggiamento della Cina: che per molti versi è tra i maggiori beneficiari del sistema di cooperazione internazionale – e di scambi economico-finanziari – architettato nel secondo dopoguerra con la benedizione delle Amministrazioni USA; e trae benefici tangibili dall’ombrello di sicurezza americano (in Medio Oriente ad esempio; ma dallo stabilità dello stesso Oceano Pacifico in fondo); ma non fa mistero, sia pur ricorrendo ad espedienti e sotterfugi (ad esempio, espandendo artificialmente delle isole per costruirvi installazioni militari e aeroporti) della propria ambizione a mettere in discussione le regole del gioco (la demarcazione di acque territoriali e zone economiche esclusive) di cui la presenza militare USA è nei fatti garante, specie nello spazio che da sempre, prima dell’avvento delle cannoniere occidentali, Pechino considerava di propria pertinenza privilegiata. Senza dimenticare le provocazioni, dal tenore un po’ farsesco ma da prendere dannatamente sul serio, che Washington ha preso a ricevere dal Presidente filippino Duterte: un alleato (ed ex-colonia: dettaglio da non trascurare, forse) che evoca apertamente la possibilità di recidere il cordone fin qui ombelicale con Washington per concedersi all’abbraccio, presumibilmente generoso di commesse e finanziamenti ma tutt’altro che disinteressato, di Pechino.
Impossibile trascurare poi la volatile polveriera medio orientale nella quale, tragica ironia della sorte, il focolaio di crisi al momento meno attivo e preoccupante è l’annoso conflitto che continua a dilaniare la Terrasanta. Che è però messo in secondo piano dall’inseguirsi di guerre, instabilità e fragilità – dalla Siria alla Libia, passando
per l’Iraq e senza dimenticare l’Afghanistan – che insanguinano la regione spingendo le popolazioni colpite all’esodo e propiziando il brodo di coltura di un radicalismo violento che non conosce remore né confini.
Di fronte a ciascuna di queste sfide, la reazione dell’Amministrazione Obama è stata, obiettivamente, inadeguata. Nella migliore delle ipotesi, dettata dall’obiettivo di limitare i danni: è il caso delle relazioni con la Cina, in cui i danni sono rimasti per ora contenuti (presumibilmente anche perché da parte cinese non vi era interesse a spingersi oltre un certo limite). Non puo’ però dirsi lo stesso di altre aree di crisi, in cui instabilità e insicurezza si sono via via allargate ed aggravate, smentendo la retorica alata di quando, ingannandosi (Obama non era stato il solo a commettere questo errore, però), la stagione delle primavere arabe era stata salutata come l’alba di una nuova epoca, quella stessa del ‘reset’ nelle relazioni con la Russia; e contraddicendo certe dichiarazioni frettolose e malconsigliate che tradivano forse il desiderio di occuparsi d’altro: le ormai famigerate linee rosse sulla Siria; l’aver bollato la Russia, al divampare delle prime schermaglie sulla Crimea, come una mera potenza regionale (schiaffo morale più bruciante dell’inserimento di oligarchi o siloviki in una lista nera); o l’aver sottovalutato nei primi mesi la serietà della minaccia, regionale e globale, del fenomeno ISIS (con una delle metafore sportive che gli sono care, Obama l’aveva paragonato ad un gruppo di riserve della squadra allievi).
L’impressione complessiva è che l’uomo Obama volesse orientare la politica estera del suo Paese in una direzione abbastanza diversa da quella tradizionale; e che il Presidente ci sia riuscito solo in parte; e che di conseguenza la politica estera americana (e occidentale, di riflesso) abbia risentito di un esperimento riuscito (a voler essere ottimisti) a metà. Lo testimonia un’intervista-testamento ormai celebre rilasciata dal Presidente uscente al settimanale The Atlantic qualche mese fa, in cui Obama ha criticato senza riserve il foreign policy establishment di stanza a Washington; usando un linguaggio nella forma molto distante ma nella sostanza non troppo dissimile da quei candidati alla Casa Bianca che della lotta all’establishment fanno uno slogan quasi esclusivo. Un sentimento prossimo al disprezzo che l’establishment del resto contraccambia, come provano i commenti e le anticipazioni di stampa apparsi su buona parte dei giornali più autorevoli d’oltre Oceano, che esprimono l’aspettativa che una Presidenza dell’ex Segretario di Stato di Obama, Hillary Clinton, segni una netta discontinuità in politica estera rispetto al suo predecessore, riportando agli USA quell’autorevolezza e prestigio smarriti.
‘Making America great again’, si potrebbe quasi aggiungere: se questo non fosse il leit motiv di colui che di Hillary Clinton è il rivale, e molto altro..