di Maurizio Sgroi
In questo crepuscolo globale mi diverte collezionare le opinioni dei personaggi illustri che stanno scrivendo la commedia della nostra contemporaneità nella quale la vicenda europea, e segnatamente quella dell’eurozona, ha finito con l’assumere il ruolo di attrice coprotagonista.
Abbiamo già visto la versione di Weidmann, il potente governatore della Bundesbank. Diventa perciò interessante raccontarne un’altra, stavolta affidandosi alle riflessioni di François Villeroy de Galhau, governatore della Banca di Francia, ossia del paese che in qualche modo ha finito con l’assumere il ruolo di competitore e insieme partner della visione tedesca. Si è a lungo discettato dell’asse franco-tedesco come motore dell’integrazione europea, a volte esagerando o addirittura fraintendendo. Ma rimane il fatto che l’eurozona trova in questa relazione il suo meccanismo di avanzamento e quindi il suo punto di equilibrio fra la visione nordica, chiamiamola così, e quella latina, essendo la Francia nient’altro che il luogo – anche geografico – dell’incontro fra le due anime dell’Europa che oggi si trovano a doversi confrontare. E che sia un confronto complesso e denso di incognite non dovrebbe stupire nessuno. Le differenze fra le popolazioni europee sono e rimangono enormi.
Questo non è necessariamente un problema, secondo il nostro banchiere francese. Semmai i problemi «nascono dal fatto che le nostre differenze di opinione tendono a far passare in secondo piano le aree in cui condividiamo un terreno comune». Naturale, peraltro, in un momento che vede sedici milioni di persone senza lavoro, solo nell’eurozona. Costoro sono gli interlocutori ideali della vulgata euroscettica, il cui avanzamento nell’opinione pubblica è troppo marcato perché si possa sottovalutare. I tormenti generati dalla Brexit, ma anche l’avanzata dei partiti contrari all’integrazione europea, sono lì a dimostrarlo.
E tuttavia, spiega ancora il governatore, «dovremmo rimanere fieri della nostra identità europea». Tema antico a ben vedere. Di identità europea si discute da decenni, spesso questionandone il senso e il significato. Nella visione di Villeroy de Galhau quest’ultima è molto più «della nostra grande storia di riconciliazione e assai più della nostra ricca diversità». Il senso dell’identità europea, sottolinea, è «il nostro unico modello sociale, combinato con alti standard di servizi pubblici e livelli relativamente bassi di diseguaglianza, assai minori che nella società americana». Il tutto ottenuto all’interno di «un’economia di mercato». «Infatti – sottolinea – il segno distintivo dell’Europa è un’economia sociale di mercato». E questo ci riporta alla visione ordoliberale di Weidmann, se osserviamo bene. Per questa ragione il banchiere francese esorta a «non abbandonare il nostro modello comune o abbassare la bandiera europea».
Se l’Europa, come dice il nostro cugino francese, è un modello di integrazione fondato su un’economia sociale di mercato, è evidente che la soluzione ai nostri dilemmi debba essere ricercata all’interno del modello, facendo leva sui punti di forza che il governatore sottolinea con forza. «Abbiamo costruito il mercato unico – dice – che è un asset notevole che appartiene a tutti noi. Non è una coincidenza che l’accesso al mercato unico sia alla base del dibattito su Brexit». A tal proposito, osserva, deve risultare chiaro che «l’accesso al mercato unico deve essere soggetto a una stretta accettazione delle regole europee». Niente comportamenti opportunistici.
Il secondo punto di forza che viene identificato è l’euro «una solida moneta riconosciuta a livello globale» e che, nell’EZ, vede «il 68% dei cittadini affezionati alla loro valuta». Affezione psicologica, quindi, ma con ricadute anche assai pratiche. «La politica monetaria europea – sottolinea – è una pietra di paragone di stabilità e ha prodotto risultati tangibili: sta spingendo la domanda fra lo 0,3 e lo 0,5% ogni anno, e anche l’inflazione» che dovrebbe eccedere l’1% l’anno prossimo e arrivare all’1,6% nel 2018.
Questi due punti di forza sono le leve che dovrebbero servire a rilanciare la crescita dell’area seguendo tre progetti concreti (in neretto nel testo). Primo passo: «L’Europa ha bisogno di quella che io chiamo la Financing and Investment Union (FIU), più che una semplice unione del mercato dei capitali». Ciò in quanto «ci sono in Europa aziende che vogliono investire e innovare ma non riescono a trovare finanziamenti», malgrado i soldi ci siano eccome: «Nell’EZ il surplus di conto corrente è più del 3% del PIL. È enorme». Insomma: il banchiere centrale francese si iscrive alla vulgata, in constante crescita, che punta sugli investimenti produttivi quale soluzione per uscire dalle secche della crisi. È quella vulgata che ha dato origine al piano Juncker, partendo dalla constatazione che il gap di investimenti, calcolato all’epoca della presentazione del piano, sia ancora nell’ordine del 2% del PIL.
Un visione non tanto alternativa a quella di Weidmann ma semmai complementare. «Per creare la FIU dobbiamo anche completare le iniziative in corso: l’unione dei capitali, ovviamente, ma anche il piano Juncker e l’Unione bancaria». Come dire: al principio della responsabilità di marca tedesca, si aggiunge quello della facilità di spesa che caratterizza la Francia. Il tutto semplificando il quadro di soggetti e competenze che rende le tre gambe della FIU ancora periclitanti, in modo da realizzare «un grande mercato europeo per il risparmio e l’investimento».
Questo, sottolinea, «ci consentirebbe di realizzare iniziative più ambiziose». E come esempio viene citato la necessità di facilitare il finanziamento delle imprese – in Europa l’equity pesa il 51% del PIL a fronte del 121% USA – e quindi «armonizzare le leggi fallimentari», e poi migliorare il settore finanziario consentendo «maggiori fusioni transfrontaliere». Inoltre «per allentare il link eccessivo fra debito sovrano e banche nazionali (tema assai caro a Weidmann, NdR) una soluzione potrebbe essere creare bond sintetici sull’euro zona (European safe bonds)» con sotto pacchetti di bond emessi da diversi stati che lascino a ognuno di loro la responsabilità dell’emissione e del pagamento delle loro obbligazioni. Un’idea che manifesta la grande fatica che si fa ad accettare in Europa il principio della mutualizzazione del debito, e che ricalca di fatto la strada seguita dalla BCE per i suoi acquisti di bond sovrani all’interno del QE.
Come secondo esempio di “obiettivo ambizioso” c’è quello di elaborare una strategia economica collettiva, perché l’agire isolato «genera soluzioni sub-ottimali». «Noi sappiamo che la crescita e l’occupazione sarebbero maggiori se ci fossero maggiori riforme strutturali dove servono, come ad esempio in Francia, e più supporto fiscale dove c’è spazio di manovra, come ad esempio in Germania». Per arrivare a questo coordinamento servirebbe un’istituzione che sviluppi la fiducia che potrebbe consistere in un ministro delle finanze con alle spalle un Tesoro europeo. Tutto ciò consentirebbe di realizzare il terzo passo, ossia dotare l’Unione di una sua capacità fiscale che «aumenterebbe il senso di fiducia fra gli stati membri».
Le riflessioni di Villeroy de Galhau sono quelle di un banchiere centrale, ovviamente, come lui si premura di sottolineare, che mai e poi mai invaderebbe il campo della politica alla quale è demandato di occuparsi di queste decisioni, consapevole che «la politica monetaria non può fare tutto da sola». Eppure queste riflessioni sono utili a delineare ciò che in comune hanno i banchieri centrali di Francia e Germania, relativamente all’idea di Europa, e quello che li separa. In comune c’è l’idea che l’integrazione debba procedere tramite l’economia, che è un po’ il leitmotiv dell’UE sin dai tempi della CECA. Dall’altro una diversa percezioni delle priorità e degli strumenti da utilizzare. Ma in fondo è un dettaglio. Oggi l’identità europea è solo una questione di numeri, grafici e tabelle. Questo unisce Francia e Germania.
E il resto di noi.
Pubblicato sul blog dell’autore il 21 ottobre 2016.