di Sergio Farris
In principio fu il debito pubblico, poi venne la competitività. Indicando tali fattori quali cause impeditive del ritorno post-crisi allo sviluppo, il neoliberismo ha cercato di salvarsi da se stesso. Ma il risultato al quale ha mirato è sempre stato lo stesso: più profitti per le imprese. Quando il pericolo bussa alla porta, per i sostenitori del verbo unico liberista arriva il momento di demonizzare la giusta reazione alle loro fallaci politiche. Le illusioni sparse via mezzi di comunicazione non possono durare troppo a lungo, perché prima o poi la realtà materiale prende il sopravvento. E tale realtà racconta di come per la gente comune, le politiche liberiste, descritte anche dopo la grande crisi come l’unica via percorribile, sono una delusione.
Da quando Jeremy Corbyn è stato confermato alla guida del Labour Party, sul Sole 24 Ore appaiono commenti nei quali si riconosce, da una parte, che la grande crisi ha generato, oltre alla Brexit, una virata a sinistra del partito e il contestuale seppellimento della “terza via” di Tony Blair, ma si evita di trarne, dall’altra, le doverose inferenze.
Solo un centro che guarda al ceto medio, secondo lor signori, può ambire a riportare un esponente del Labour a Downing Street. Il ritornello è: con tali programmi il Labour non tornerà mai al governo di sua Maestà. Piccolo particolare: ai ceti popolari e a chiunque abbia una genuina idea di sinistra, sebbene variamente declinata, non interessa affatto (in quanto per nulla vantaggiosa) una riedizione delle “terza via” di Tony Blair. Perché è stata proprio la “terza via”, traducibile nella sostanziale accettazione da parte socialista del paradigma liberista introdotto da Margareth Thatcher, l’incubatrice del degrado sociale nel quale tali ceti versano.
Lo ha compreso persino Theresa May, la quale cerca di colpire sia il cerchio che la botte, appropriandosi, da un lato, dell’ideologia antimmigrazione dell’UKIP e, dall’altro, dell’esigenza di un ritorno all’interventismo del settore pubblico, rappresentato appunto dal Labour di Corbyn. Il bersaglio è comunque l’ideologia neoliberale. La sua cittadella è sotto assedio. Da sinistra e da destra. E il fatto che ciò avvenga nel paese di Margareth Thatcher è sintomatico di una crisi generale di detta ideologia.
Sul Sole 24 Ore dell’8 ottobre il Labour di Corbyn viene definito, per avere accomodato nel cestino il neo-centrismo di Blair, come un vecchio Labour in bilico fra movimentismo giovanile e nostalgie di un socialismo di purezza. Si aggiunge che un tale partito, radicalizzato e risindacalizzato, non potrà mai giungere al governo.
Oggi non sappiamo quali potranno essere, in prospettiva, le concrete ambizioni (anche in termini temporali) per il Labour di Corbyn di arrivare al governo. Quello che mi preme sottolineare è che, per una sinistra degna di tal nome, non è importante costituire movimenti e partiti che aggettano al centrismo soltanto per aspirare al governo dei vari paesi. È una questione di sostanza.
Quello che in realtà i critici di Corbyn temono è di dover assistere a un ritorno del pensiero critico rispetto ai dogmi del pensiero neoliberale. Temono cioè la diffusione di un pensiero che possa ambire a porre al centro della scena, rimpiazzando l’armonico disegno “naturale” propinatoci per anni, il conflitto sociale per la distribuzione della ricchezza. Il fatto che, con le buone o con le cattive, il governo greco di SYRIZA è stato messo alle corde, isolandolo come si trattasse di un’anomalia nel panorama politico europeo, non è bastato per evitare l’emersione dei sintomi di un malessere più generale. La crisi del 2008 ha posto ovunque (in Europa e non solo) i vari paesi dinanzi al medesimo problema. L’inadeguatezza delle politiche liberiste nel fornire il rimedio ai guai da esse medesime cagionati.
Secondo il pensiero liberale, evidentemente appoggiato dal nostalgico Sole 24 Ore, l’unico ceto sociale di rilievo è quello medio, composto di individui “utilitaristici” che agiscono razionalmente nel mercato.
È un impostazione che ha molto a che vedere con il fondamentalismo del mercato (che postula lo sregolato spostamento di capitali, merci e persone) e con gli interessi delle “élite” finanziarie (gli stessi interessi i cui rappresentanti hanno esercitato, per decenni, la loro egemonia culturale). Slegati i mercati avendone rimosse le “rigidità” (ostacoli quali il diritto sindacale) si entrerebbe in un mondo dove regna l’armonia, da cui i continui (e ingannevoli) richiami alla “fine delle ideologie”. Nel libero mercato ognuno riceverebbe “automaticamente” quanto merita, cioè un compenso pari al proprio apporto al prodotto sociale, a sua volta pari alla propria produttività. Lavoro e capitale sarebbero remunerati secondo il rispettivo contributo al prodotto finale. Non vi può essere conflitto circa la distribuzione del reddito. Ciascun individuo sarebbe perfettamente in grado di apprezzare utilità e disutilità legate al proprio agire economico e, di conseguenza, dosare il proprio sforzo lavorativo. Le differenze di reddito sarebbero imputabili esclusivamente a differenze di impegno e di capacità. Le imprese, fra loro in concorrenza, con il salario fissato al livello “naturale” (il salario corrispondente al livello ottimale nel mercato del lavoro, quello cioè al quale chiunque trova un’occupazione) sarebbero sempre pronte a domandare lavoro. La disoccupazione, ove sussistente, sarebbe il risultato di una scelta volontaria dei lavoratori.
Coerentemente con questo quadro, affinché cioè l’individuo tratteggiato come egoista e razionale possa sprigionare le sue energie (non esistono questioni di rapporti di forza per cui ognuno è artefice del proprio destino) e cogliere i frutti del proprio merito, si rende necessaria la “resa” dello Stato, intesa come rinuncia al governo delle politiche economiche ed alla messa in opera di eventuali provvidenze sociali, il tutto in favore delle forze spontaneamente operanti nel mercato.
In riscontro a questo armonico quadro “panglossiano” si può subito obiettare che le cose, nella realtà, non vanno come ivi previsto. L’occupazione si determina sul mercato dei beni, non sul mercato del lavoro. Si contrattano i salari nominali e questi non hanno un rapporto di stretta correlazione con la produttività, dipendendo piuttosto da variabili come la forza nei rapporti contrattuali ed i prezzi, sulla cui fissazione le imprese possono avere, secondo il grado di concorrenza nel mercato dei beni, un margine più o meno ampio. La disoccupazione ha carattere di involontarietà. Anche se i lavoratori vengono costretti, con la flessibilità, ad accettare salari inferiori, ciò non fa salire il livello dell’occupazione, ma conduce piuttosto a una depressione della domanda aggregata, al che fa seguito un calo degli investimenti. L’unico effetto è un aumento dei profitti, che vengono magari riversati nei mercati finanziari. Non c’è armonia distributiva, bensì, dato un livello di reddito, una relazione inversa fra profitti e salari. È proprio quest’ultimo punto che i difensori del liberismo cercano a tutti i costi di espungere da qualunque dibattito. Il tentativo, operato da chi osteggia la svolta di Corbyn, di amalgamare chiunque in un ipotetico ceto medio, è perciò alquanto fuorviante e velleitario.
L’origine della crisi
Il quadro concettuale liberista, risalente al tardo ’800, fu, come si sa, ravvivato sul finire degli anni ’70 del secolo scorso da parte delle destre conservatrici. Ma anche i partiti socialisti (o riformisti, come hanno a un certo punto cominciato a definirsi), negli ultimi vent’anni hanno ampiamente abbracciato il pensiero economico della destra. Hanno in sostanza accettato l’assioma che il potere pubblico, facendosi da parte, libererebbe risorse che i privati tramuterebbero in crescita per tutti (teoria dello spiazzamento).
Varie volte, qui in Italia, è stato affermato da parte dei governi di centrosinistra: bisogna prima consentire la crescita, poi, in un successivo momento, pensare alla redistribuzione (politica dei due tempi). L’attenzione è stata, da allora, posta su un’impostazione restrittiva del bilancio dello stato e sulla privatizzazione delle aziende e dei servizi pubblici (in Italia, come in Inghilterra è stato privatizzato quasi tutto). E’ stato artatamente diffuso il mantra che “lo stato spende avendo prima prelevato dalle tasche dei cittadini”. Altra parola d’ordine è stata “deregolamentazione”, lasciando più spazio possibile al privato, in particolare attraverso una riduzione della tassazione sui redditi elevati (sull’ipotesi che con tali misure aumentino gli investimenti) e diminuendo la spesa dello stato destinata ai servizi pubblici.
Questo perché se si dà per assodato che il sistema “liberalizzato” funziona da sé in modo ottimale, non vi è disoccupazione e i redditi sono distribuiti in base ai meriti di ciascuno, qualunque intervento di politica fiscale espansiva dello Stato genererebbe inflazione e nessun beneficio reale. In sintesi, secondo il pensiero economico della destra (e, come detto, non solo della destra) i mercati tendono spontaneamente a garantire un’elevata occupazione, un elevato livello di investimento e una ottimale distribuzione del reddito (ogni operatore economico si formerebbe delle aspettative razionali sulla cui base opererebbe le proprie scelte e riceverebbe, come detto, una quota di reddito corrispondente alla propria “produttività marginale”). I mercati, inoltre, sarebbero in grado di attribuire il giusto prezzo a qualunque bene o servizio. Il sistema economico tenderebbe quindi, spontaneamente, verso il suo “equilibrio generale”.
La svolta dei primi anni ’80 fu deliberata per modificare profondamente le caratteristiche di fondo dello sviluppo che aveva dominato la scena nel dopoguerra. Si chiuse una fase contraddistinta dalla gestione, da parte delle autorità pubbliche, delle economie industriali capitalistiche.
Il ritorno al mercato (con la connessa avversione per i presunti ostacoli posti dai sindacati dei lavoratori) che si è avuto dopo la parentesi del compromesso socialdemocratico del secondo dopoguerra, ha proceduto di pari passo con una trasformazione del sistema capitalistico.
Il movimento operaio occidentale del secolo scorso si era, come sappiamo, diviso fra due alternative: da un lato una prospettiva rivoluzionaria, rivolta cioè all’ottenimento diretto del potere per l’annullamento dei rapporti sociali capitalistici tramite l’abolizione della proprietà privata dei mezzi produttivi; dall’altro, una posizione attendista, rivolta cioè all’integrazione delle masse operaie nella società capitalistica ed all’ottenimento di una rappresentanza parlamentare, in vista di una trasformazione della società in senso progressista/socialista.
È fuori di dubbio che il riconoscimento del comune sacrificio profuso per sconfiggere il nazifascismo, unitamente alla presenza dell’alternativa rivoluzionaria in Russia, abbiano contribuito a spingere le classi imprenditoriali dei paesi occidentali in cui nel dopoguerra era prevalsa la seconda posizione, a venire a patti con il movimento operaio. Tanto più che la “grande depressione” degli anni ’30 aveva messo a nudo i limiti della società basata sull’euforia del mercato e sull’iniziativa individuale. In modo inverso, il cedimento del “blocco del Patto di Varsavia” alla fine degli anni ’80 non può non avere avuto effetto nel ringalluzzire le rappresentanze degli interessi capitalistici, le quali hanno avuto campo libero nell’esplicazione delle politiche ad esse favorevoli. Anche la corsa agli armamenti innescata da Reagan agli inizi degli anni ’80 (da cui il vantaggio tecnologico degli USA che contribuirà al “Washington consensus” negli anni ’90) e il mito del consumismo diffuso nel blocco occidentale, potrebbero avere avuto l’effetto di accelerare il disfacimento del blocco socialista.
Va tuttavia anche osservato che la cesura a partire dalla quale aveva cominciato a dispiegarsi la controffensiva capitalista verso il movimento dei lavoratori, è la crisi degli anni ’70. Dopo la decolonizazzione, che aveva menomato il grande vantaggio di accedere a materie prime a basso costo, le “élite” dominanti occidentali hanno cominciato, vedendo assottigliarsi le opportunità di profitto, a rivolgere il proprio interesse a un processo di privatizzazione dei beni pubblici nei propri paesi. Con la fine degli accordi di Bretton Woods cambiava profondamente il sistema monetario internazionale. Veniva meno, cioè, la cornice di rapporti commerciali internazionali che aveva in precedenza consentito, nei vari ambiti nazionali, un’espansione controllata della domanda aggregata. La svalutazione del dollaro contribuì al disordine geopolitico del Medio Oriente, da cui il rincaro dei prodotti petroliferi e l’impennata dell’inflazione importata.
In quella fase, la società occidentale, era inoltre giunta a un punto di saturazione dei mercati. Si è gradualmente abbandonato il paradigma “fordista”, l’impresa è divenuta flessibile e di dimensioni più ridotte, i mercati finanziari liberalizzati hanno assunto un ruolo predominante nell’allocazione dei capitali (preparando però il terreno per le successive crisi finanziarie). È cresciuto il numero delle imprese multinazionali e, con le delocalizzazioni, è gradualmente cambiata la divisione internazionale del lavoro. La nuova parola d’ordine, in sostituzione di “piena occupazione” è diventata “lotta all’inflazione”, in conseguenza della quale sono tornati il fenomeno della disoccupazione di massa (fattore disciplinante del lavoro) e il contenimento dei salari. Parte non secondaria di questo processo è stata, come lo è tuttora, la messa in discussione dei diritti dei lavoratori, sbattuti in un agone globale a competere fra loro. Tutto ciò è stato abbinato ad un’impostazione ideologica che vede qualunque intervento redistributivo dello Stato come un’indebita ingerenza nella sfera privata degli individui (l’accennato neoconservatorismo).
È superfluo ricordare che la suaccennata trasformazione del capitalismo, contrariamente a molti modelli previsivi, ha posto le basi per la sua stessa successiva crisi, conclamata nel 2007/2008. In particolare, decenni di basse retribuzioni hanno eroso la sicurezza economica e la speranza in un futuro migliore. A dispetto della promessa legata all’avvento del lavoro cognitivo, che incorpora le nuove tecnologie informatiche, l’occupazione è divenuta sempre più precaria e sottoretribuita, mentre i guadagni degli azionisti e degli amministratori delegati, in particolar modo nel settore finanziario, raggiungevano vette stratosferiche.
La reazione
Quando la crisi del capitalismo globale finanziarizzato è ineluttabilmente giunta, nonostante fosse stato palesemente dimostrato il contrario, in molti ambienti governativi nazionali e sovranazionali, nell’ambiente del Fondo monetario internazionale (salvo qualche tardivo recente ripensamento) e in aree come l’Unione europea (la cui crisi ha connotazioni specifiche), ha continuato a predominare la visione che il mercato libero da vincoli avrebbe dato risultati ottimali, così come ha continuato a predominare la fallace convinzione secondo cui l’impresa in grado di ottenere profitti distribuirebbe benefici all’intera collettività (cosiddetta teoria dello sgocciolamento). Tutti i comunicati ufficiali emessi al termine di ogni summit del G20 continuano, ancora oggi, a riportare la necessità di riforme strutturali. Si tratta, in particolare, in continuità con le politiche di globalizzazione del capitale, di misure rivolte a disciplinare più rigorosamente il lavoro con la minaccia del licenziamento; questo comporta un minor potere contrattuale dei lavoratori, un abbassamento dei salari e un presunto aumento della produttività; a un certo livello di salario e di produttività, il profitto per le aziende è di più probabile realizzazione e ciò dovrebbe attirare, in un mondo dominato dai flussi di capitale, gli ossessivamente invocati investitori.
Non è facile, agli occhi dei più, individuare le cause della crisi. Ciò, soprattutto, avuto riguardo al modo con il quale essa è stata presentata da parte dei mezzi di comunicazione. Si è avuta perciò l’impressione, da un lato, di trovarsi davanti a un “evento naturale” (è arrivata la crisi, è imperativo fare i sacrifici), e dall’altro, di dover attribuire alle finanze pubbliche e, ancora una volta, alle protezioni del lavoro (che causerebbero mancanza di competitività), le fonti primarie dei guai. Non dovremo mai dimenticarci, in proposito, di far presente alla redazione del Sole 24 Ore il titolo “FATE PRESTO” apparso a caratteri cubitali il 10 novembre 2011, con il quale si esortava senza esitazioni il governo di Mario Monti (insediato con una manovra dell’allora presidente Napolitano) a porre in essere politiche di austerità, ben sapendo che con esse la Confindustria avrebbe goduto di una redistribuzione a suo vantaggio di potere e risorse.
L’andamento di un sistema economico è sempre il risultato di scelte umane nell’ambito del relativo contesto di regole politiche, e le scelte che hanno portato alla crisi iniziata nel 2007/2008 recano lo stigma dei rappresentanti degli egoistici interessi che per decenni hanno dominato la scena politica e sociale. La beffa è che gli organi di informazione di costoro pretendono tuttora di poter continuare a dispensare consigli di politica economica, come se nulla fosse accaduto. Negli stessi ambienti, il massimo dell’autocritica che si è registrato nella fase post-crisi è stato il riconoscimento dell’avidità sregolata da parte di qualche banchiere/speculatore. Ma la speculazione finanziaria è, al più, l’epifenomeno. Come scritto da Norbert Trenkle ed Ernst Lohof, l’emergere di bolle speculative e creditizie non è la causa delle crisi del capitalismo, ma è bensì il risultato e la forma di processi di congestione dei capitali, da valorizzare nell’economia reale. È il modo di produzione capitalistico in toto ad essere basato sul principio della massimizzazione dei profitti. Ecco perché da parte dei sostenitori del pensiero liberista non si fa che insistere sulla supposta ineluttabilità di riforme, soprattutto dei mercati del lavoro, che dovrebbero accrescere la competitività. Ma non ci si può fermare davanti a una ipotetica dicotomia fra capitalismo che lavora e capitalismo astratto e rapace, basato sulla rendita.
È oggi pressoché assodato che la crisi (compresa quella dell’eurozona, che si inscrive con delle peculiarità in quella generale), è stata determinata da un eccesso di debito privato, che ha portato al collasso il sistema finanziario. L’esperienza di questi anni mostra che il credito, soprattutto per abitazioni, in stati come USA, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda, ha trainato la domanda aggregata che sarebbe stata altrimenti destinata, per i fattori anzidetti, a rimanere asfittica. I flussi finanziari che gonfiavano i debiti dei paesi dove essi sono andati ad accumularsi erano guidati dall’affidamento negli, invero distorti, segnali del mercato, ritenuto fideisticamente un entità efficiente e autoregolantesi.
L’aumento dei deficit e dei debiti pubblici sono stati piuttosto la conseguenza, non la causa della crisi. Se cala il prodotto interno lordo calano anche le entrate fiscali, entrano in funzione gli stabilizzatori automatici e occorre sussidiare i senza lavoro. Inoltre, i salvataggi degli istituti finanziari privati sono avvenuti con risorse pubbliche. Ma la crisi è stata presentata come esito di sperperi da parte di un irresponsabile settore pubblico solo per una questione ideologica, non per una questione di razionalità economica. Il privato sarebbe efficiente e saprebbe amministrare le risorse, così come il singolo individuo che pensa al proprio interesse immediato sarebbe virtuoso. Quindi, se sopravviene una crisi, la causa è da ricercare nella spesa pubblica. Un’ideologia fallace, ma consona agli interessi della finanza e dell’impresa private.
Purtroppo, come è stata gestita questa situazione? Per lo più, in continuità con le cause che l’avevano prodotta! Se il modesto sviluppo della fase pre-crisi era stato alimentato dalla cosiddetta “leva finanziaria”, che, ripetiamo, gonfiava il debito privato, non si è fatto altro che cercare di riprodurre le (effimere) condizioni affinché la giostra della finanza potesse ripartire (in effetti, tutti i principali indici azionari del mondo si sono abbastanza presto, dopo il tonfo del 2008, più che risollevati). Ci si è affannati, in prima battuta, a rifornire di ingenti risorse le banche e il settore finanziario privato in genere, e, secondariamente, si è intervenuti con una politica monetaria ultraespensasiva. Ma la politica monetaria non convenzionale (ormai divenuta convenzionale), sulla quale ha fatto maggiormente affidamento la reazione delle autorità alla crisi del 2008, ha avuto quale effetto quello di far salire il prezzo delle attività finanziarie e di avere così aumentato le disuguaglianze. Infatti, sono in genere i ceti sociali più abbienti a detenere, in proporzione, una maggior quota di titoli finanziari.
Scarsi gli effetti sull’economia e la produzione reali. La politica monetaria ultraespansiva, attuata da tutte le principali banche centrali, ha innescato una competizione valutaria internazionale che, con la sempre presente raccomandazione ad attuare le riforme strutturali, cioè un rilancio della competizione selvaggia sui salari, ha finito con lo spronare tendenze protezionistiche. L’effetto atteso dei bassi tassi d’interesse è stato, rispetto allo stimolo per investimenti, molto deludente. La scarsa domanda mondiale non genera attese di un adeguato ritorno sui capitali investiti, spingendo una gran massa di liquidità creata dalle banche centrali verso impieghi finanziari rischiosi. Altro effetto delle politiche monetarie non convenzionali è perciò il rinnovato rischio per la stabilità finanziaria mondiale.
L’eccesso di capacità produttiva inutilizzata e la mole di risparmio che non viene tradotto in investimento sono all’origine della ricomparsa della deflazione, la quale fatto capolino in molte regioni. L’ossessione di soffrire per problemi di competitività, l’idea cioè di dover agire sul lato dei costi come il lavoro, per abbassare i prezzi, ha indotto ad a implementare una strategia basata sulla svalutazione concorrenziale di ciascuna area economica nei confronti delle altre (emblematica è la situazione dell’area euro rispetto alle altre aree economiche). Tuttavia, si è trattato di una strategia che ha ben presto mostrato di avere il fiato corto, con la progressiva tendenza a politiche di tipo protezionistico ed al rallentamento del commercio globale. Allo stato attuale dei fatti, considerata anche la perdita di centralità dell’occidente, con in testa gli USA, è difficile ritenere che si riaffermerà il consenso degli anni novanta (cosiddetto consenso di Washington).
Dal lato della politica fiscale, si è in genere mantenuto (segnatamente in Europa) un indirizzo restrittivo e comunque, anche laddove non ci si è trovati coartati da regole fiscali particolarmente austere, non espansivo nella misura che sarebbe stata necessaria.
L’elemento del debito privato riconduce all’altra fondamentale causa della crisi: la disuguaglianza. Infatti, in un generale contesto di redditi reali da lavoro in calo, affinché sia assicurato che abbia luogo un livello soddisfacente di consumo, il debito privato (o componente autonoma della domanda) è essenziale.
Una genuina ripresa e un vero cambiamento, si avranno soltanto quando saranno definitivamente rigettate le idee e le politiche che ci hanno portato nella situazione attuale. Ma se per preservare la competitività si pretende che le retribuzioni debbano essere permanentemente schiacciate, si istituzionalizza la disuguaglianza e la domanda globale tenderà a restare a lungo depressa.
Conclusione
Soltanto chi non è disposto ad ammettere il fallimento del neoliberismo, riconoscendolo quale ideologia al servizio delle “élite” finanziarie, può dirsi sorpreso o scandalizzato del cambio di rotta nel Labour Party con il successo di Corbyn, e della contestuale messa in ombra dello peudosocialismo “blairiano”. Per quale ragione, coloro che non hanno tratto vantaggi dalla “terza via”, un pensiero per decenni irretito dal pensiero unico globalista (lo stesso che ha guidato le azioni di istituzioni come il Fondo monetario internazionale) non avrebbero dovuto rivoltarsi? Ciò che in ambienti come quello della stampa confindustriale si auspica, è che venga abortita qualunque brama di confutazione del pensiero liberista, con l’aggravante che possa magari tramutarsi in una tangibile e chiara proposta politica.
Vi è intanto, fra l’altro, l’impellenza di guardarsi dal rischio di un definitivo consolidamento, a destra, dei rinati movimenti xenofobi, i quali sembrano purtroppo capaci di intercettare, pur mancando nell’elaborazione di sofisticati impianti analitici della crisi, il disagio popolare.
Per quanto riguarda la sinistra, è presto per poter definitivamente constatare che il malcontento collegato alla nuova evidente manifestazione della natura intima del capitalismo (ricerca spasmodica del profitto mediante la soggezione del lavoro, con il corollario della generazione di permanenti disparità) sta comportando la concretizzazione politica di un’alternativa in grado di insidiare in radice l’attuale assetto del potere capitalistico o che sia capace, perlomeno, di far mutare segno, in senso meno regressivo, alle politiche che le oligarchie finanziarie e le multinazionali pretendono di continuare a chiedere ai governi ed alle istituzioni internazionali. Va tuttavia rimarcato che, la teoria della politica economica muove qualche timido passo, fornendo utili spunti di riflessione per un ripensamento delle nostre regole di governo.
Non difetta a sinistra, sul piano teorico, l’elaborazione di analisi e programmi tesi a mettere in discussione la validità delle politiche liberiste (messe seriamente in discussione, per altri fini, anche da destra) che si è preteso venissero, nonostante il loro fallimento, applicate.
Ma questi, a testimonianza della debolezza e della frammentazione in cui tuttora versa la rappresentanza del movimento dei lavoratori (particolarmente avvertibile in Italia), non si spingono fino alla prospettazione di un mondo socialista.
Se, dal canto suo, il capitale ribadisce di essere quello delineato da Marx (è mutata la forma, non la sostanza), manca, d’altra parte, una concezione di società socialista credibile e adatta ai tempi (non potrebbe, ovviamente, trattarsi di una replica dell’URSS).
Chi si rifà alle lucide analisi socioeconomiche di Marx non ha comunque motivo di ritirarsi in una definitiva rassegnazione alla sconfitta del socialismo oppure, come è già accaduto alla (pseudo)sinistra maggioritaria, in una omologazione all’assunto che il capitalismo potrebbe rappresentare la “fine delle storia”. Il futuro deve avere in serbo ben altro.
Intanto, però, non è da disdegnare un ritorno al socialismo democratico come quello di Corbyn (o di Bernie Sanders negli USA) che postuli un ritorno alle politiche per la piena occupazione, per la distribuzione equa del benessere e per un riequilibrio del potere negoziale fra le classi, politiche cioè di direzione inversa rispetto a quelle che hanno dominato la scena negli ultimi trent’anni. Il consolidamento e l’estensione di un tale tendenza potrebbe costituire un elemento di agglomeramento e di ritrovata coesione del movimento dei lavoratori. E, poi, chissà.
Pubblicato su facciamosinistra! il 18 ottobre 2016.