di Peter Rossman
«Le Parti istituiscono un’area di libero scambio…”. CETA, Articolo 1.4
«Il commercio, come la religione, è una cosa di cui tutti parlano, ma che pochi capiscono: il concetto stesso è ambiguo, e nella sua comune accezione, non precisato in modo adeguato». Daniel Defoe, A Plan of the English Commerce (1728)
Il “libero commercio” e l’universo in continua espansione degli investimenti
Il Canada e l’UE sono già tra le economie più aperte del mondo. I dazi doganali sono ai livelli più bassi di sempre. In realtà, lo scopo principale del CETA è eliminare le “barriere non tariffarie”, ossia le leggi e i regolamenti emanati nel corso di decenni di lotte per limitare il potere delle multinazionali e sostenere i servizi e le politiche a difesa dei cittadini, dei lavoratori e dell’ambiente. Il CETA è un accordo per gli investimenti, inserito all’interno di un progetto globale di deregolamentazione.
Il trattato rende le leggi e i regolamenti attualmente in vigore in Canada e UE vulnerabili agli attacchi del capitale, sia direttamente tramite l’ISDS, sia indirettamente attraverso dispute fra Stati fomentate dalle multinazionali. Inoltre preclude ai governi progressisti l’uso di strumenti politici essenziali, che sarebbero necessari per porre rimedio alla distruzione sociale che alimenta una destra autoritaria, nazionalista e xenofoba. Il trattato parte da un’ampia definizione di investimento che travalica la portata dei trattati già esistenti tra Canada e UE. Questa parte è virtualmente identica a quella contenuta nella bozza del capitolo sugli investimenti del TTIP trapelata qualche tempo fa.
Il testo ufficiale del CETA, impregnato di gergo legale, afferma tautologicamente che: «Per investimento si intende qualsiasi tipo di bene che un investitore possiede o controlla, direttamente o indirettamente, e che ha le caratteristiche di un investimento». Tra la caratteristiche di un investimento c’è “l’aspettativa di un guadagno o profitto”. Oltre agli investimenti diretti in un’impresa, la definizione include partecipazioni azionarie, obbligazioni ed altri strumenti di debito; concessioni, «incluse quelle per la ricerca, la coltivazione, l’estrazione e lo sfruttamento di risorse naturali»; diritti di proprietà intellettuale e di «altri beni mobili, tangibili o intangibili, o beni immobili ed i diritti relativi» nonché «diritti su pagamenti o su prestazioni previste da contratti». Ad una multinazionale basta poter dimostrare la mera «aspettativa legittima» di profitto per impugnare qualsiasi atto legislativo che ostacoli la realizzazione di tale aspettativa.
Le norme per l’accesso al mercato e il trattamento nazionale, stabilite nel capitolo sugli investimenti, si applicano agli enti governativi di qualsiasi livello, rimuovendo qualsiasi restrizione in nome della “non-discriminazione”. Il trattato impedisce ai governi di indirizzare gli investimenti stranieri verso scopi particolari, e proibisce ogni restrizione al rimpatrio dei profitti.
“Espropriazione indiretta”
Il capitolo sugli investimenti “riafferma” il diritto dei governi di introdurre normative per tutelare l’interesse pubblico, ma gli investitori sono garantiti da estese «procedure eque e giuste» e protetti contro «l’espropriazione indiretta» dei profitti attesi per effetto dell’adozione di nuove leggi o regolamenti. L’organo per la risoluzione delle controversie dovrà determinare se un’espropriazione indiretta ha avuto luogo sulla base di una «indagine conoscitiva che prenda in considerazione, tra le altre cose, in che misura un provvedimento, o una serie di provvedimenti, abbiano interferito con nette e ragionevoli aspettative suffragate da investimenti». Il concetto legale di espropriazione indiretta, o “legislativa”, ha già consentito a un numero crescente di investitori di portare in giudizio gli Stati, e vincere cause contro leggi a tutela dell’interesse pubblico, regolamenti e decisioni giudiziali.
I servizi pubblici sono esenti dalle clausole del capitolo sugli investimenti che regolano l’accesso al mercato, il trattamento nazionale, i criteri di performance e dalla clausola della nazione più favorita (procedura che obbliga a concedere a una nazione terza le stesse condizioni concesse negli accordi commerciali precedenti a un’altra), ma soltanto a condizione che siano «forniti senza scopo di lucro e non in concorrenza con uno o più operatori economici». Questa è l’esenzione di facciata del settore pubblico istituita dall’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) con l’Accordo generale sugli scambi di servizi (General Agreement on Trade in Services, GATS). Poiché vi sono sacche di operatori privati nella maggior parte dei servizi pubblici, pochi di questi rispondono ai criteri di esenzione sopraelencati. Gli Stati possono specificare esplicitamente i servizi che vogliono esentare da questa parte del trattato – l’approccio a lista negativa – usando la Classificazione centrale dei prodotti stilata dalle Nazioni Unite nel 1991, le cui migliaia di voci confondono i confini tra industria e servizi, tra pubblico e privato. Apposite clausole di moratoria e antiarretramento congelano i livelli attuali di privatizzazione, rendendo difficile e costoso, per i governi nazionalizzare servizi già privatizzati.
Il capitolo del CETA che si occupa di legislazione nazionale non si limita ai servizi. I governi devono assicurare che qualsiasi restrizione legislativa, introdotta o già in vigore, «non complichi o ritardi indebitamente la fornitura di un servizio o lo svolgimento di una qualsiasi attività economica». L’articolo 2 del capitolo sulle barriere tecnologiche al commercio ribadisce i limiti posti all’azione legislativa, prevedendo che i regolamenti tecnici «non devono essere più restrittivi del commercio di quanto strettamente necessario per raggiungere il loro legittimo obiettivo»[1].
Il capitolo sugli appalti governativi allarga la penetrazione delle multinazionali a ogni livello di governo, generalizzando le condizioni di “trattamento nazionale” e proibendo “compensazioni” definite come «qualsiasi condizione o iniziativa a favore dello sviluppo locale».
Il capitolo sui servizi finanziari consente «misure cautelari», definite in modo vago, ma riduce la possibilità di contenere la dimensione o la quota di mercato delle istituzioni finanziarie perfino se le misure non discriminano tra investitori nazionali e internazionali. I governi che volessero limitare l’introduzione di nuovi “prodotti” finanziari, o limitare la dimensione delle istituzioni finanziarie, dovranno rendersi conto che queste, tramite il CETA, si sono in pratica assicurate contro ogni rischio legislativo.
Il capitolo sulla cooperazione normativa impegna i firmatari a «rimuovere inutili ostacoli al commercio e agli investimenti» e a «rafforzare la competitività» attraverso un Forum sulla cooperazione normativa, un organismo che non rende conto ad alcuna autorità superiore, e che istituzionalizza le lobby. Il Forum ha il compito di ridurre i costi di conformità ai regolamenti, di esplorare “alternative” alle prescrizioni normative e promuovere il «riconoscimento di equivalenza e convergenza» – insomma, è un modo netto per spianare qualsiasi tutela. I governi sono tenuti a condividere «informazioni riservate» con le controparti del Forum prima che queste informazioni siano rese note agli organi legislativi o al pubblico – il tutto «senza limitare la capacità dei firmatari di svolgere le proprie attività normative, legislative e politiche»!
Gli approcci normativi devono essere «tecnologicamente neutrali» – una prescrizione che cozza contro la vaga promessa contenuta nel capitolo sul commercio e l’ambiente, nel quale le parti «si impegnano a cooperare per la promozione dell’efficienza energetica e lo sviluppo e messa in opera di tecnologie a basse emissioni di carbonio e in generale a basso impatto sul clima».
Quale peso hanno, all’interno del CETA, gli investimenti (e, in alternativa, il “commercio di servizi”) rispetto allo scambio di merci ? Le disposizioni del Trattato cessano di essere valide 180 giorni dopo la notifica dell’intenzione di abrogarlo. Ma quelle del capitolo 8 (“Investimenti”) rimangono in vigore per vent’anni.
Quale strategia per il movimento dei lavoratori?
Dopo il voto sulla Brexit, la Commissione europea ha annunciato che il CETA – la cui firma era prevista al summit UE-Canada di fine ottobre – sarebbe stato considerato come un “accordo misto”, che richiede quindi l’approvazione di tutti i parlamenti degli Stati membri, oltre alle principali istituzioni comunitarie. Ma la Commissione ha anche proposto che il trattato entri “provvisoriamente” in vigore subito dopo l’approvazione del Consiglio d’Europa e del Parlamento europeo; in questo modo le disposizioni comincerebbero ad applicarsi anni prima della ratifica ufficiale, e persino nel caso in cui uno o più Stati membri votassero contro l’accordo.
Sindacati e società civile sono unanimi nel chiedere la rimozione dell’ISDS dal trattato. La decisione della Commissione europea di cambiare il nome da ISDS a «sistema giudiziario per la protezione degli investimenti» non rimuove la fondamentale tossicità di questo strumento e va fermamente respinta.
Detto questo, l’ISDS non è che un aspetto, seppure importante, della scalata al potere da parte delle multinazionali contenuta nel CETA. Il capitale internazionale può reclamare i propri diritti attraverso i meccanismi di contenzioso tra Stato e Stato, come dimostra l’organo di conciliazione dell’OMC. Il trattato include sistematicamente ampi diritti conferiti agli investitori transnazionali; la confisca delle istituzioni democratiche da parte delle multinazionali è il filo rosso che collega i vari capitoli. Anche rimuovendo chirurgicamente l’ISDS, il testo rimanente non favorisce una strategia progressista per il commercio. Allo stesso modo, non è pensabile “bilanciare” la lunga lista di vasti diritti garantiti agli investitori nemmeno inserendo norme più stringenti per la protezione dei diritti del lavoro e dell’ambiente. Il CETA è intrinsecamente ostile alla democrazia e al movimento dei lavoratori; non lo si può “migliorare”, va semplicemente eliminato.
Dietro al CETA, naturalmente, è appostato il TTIP. Se il TTIP non dovesse andare a buon fine, la maggior parte dei suoi intenti sarà realizzata tramite il CETA. La maggior parte delle multinazionali statunitensi ha filiali in Canada con attività e “aspettative di profitti o guadagni” nella UE. Per questa via potrebbero quindi utilizzare l’ISDS per soddisfare i propri crescenti appetiti. Le multinazionali UE possono certo portare in giudizio il governo canadese, ma nel contempo possono anche usare le proprie filiali canadesi per attaccare normative europee sgradite, il che non farà che accelerare la ritirata normativa già in atto da parte della UE.
Per lunghi decenni il movimento dei lavoratori ha combattuto una battaglia puramente difensiva contro le politiche neoliberiste sul libero scambio e sugli investimenti; ciò che manca è una strategia attiva. Il terreno perduto non potrà mai essere recuperato continuando a combattere nel campo avversario. L’attuale situazione di crisi, stagnazione e di crollo degli investimenti – il più prolungato della storia recente – non può essere ribaltata con dosi ancora più forti di neoliberismo. Per far fronte alla disoccupazione di massa, alle diseguaglianze, allo smantellamento dei servizi pubblici e al cambiamento climatico servono programmi concreti di investimenti pubblici. Ma il CETA e i trattati che lo fiancheggiano sono molto efficaci nell’impedire questa soluzione.
Pubblicato su Global Labour Forum, numero 250, settembre 2016. Traduzione di Margherita Russo e Carlo Rimassa rivista da Thomas Fazi.
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Note
[1] Il capitolo del TTIP sulle barriere tecnologiche, trapelato qualche tempo fa, utilizza in modo creativo la clausola della nazione più favorita per stabilire che «ciascuno Stato firmatario consentirà a rappresentanti di altri Stati firmatari di partecipare allo sviluppo di normative tecniche e procedure di verifica di conformità» e che “ciascuno Stato consentirà a rappresentanti di un altro Stato di partecipare alla stesura di queste normative a condizioni non meno favorevoli di quelle accordate ai propri rappresentanti».