di Francesca Lacaita e Roberto Musacchio
Che questa riforma costituzionale intenda “costituzionalizzare” politiche e pratiche favorevoli alle imprese è noto. Sappiamo del peso che ha sulla politica italiana la banca d’affari americana JP Morgan, e siamo consapevoli della rispondenza della riforma costituzionale alle indicazioni del famoso rapporto della medesima banca datato 2013, quello che deplorava nelle costituzioni dei paesi dell’Europa meridionale sorte sulle ceneri dei fascismi «una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo», e nei loro sistemi politici «le seguenti caratteristiche: governi deboli; Stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo».
Si vuole cioè giungere a un sistema in cui i desiderata dei padroni dell’economia – sempre meno graditi alle opinioni pubbliche dei vari paesi, ma che formano ormai un paradigma di ideologie, di politiche e di interessi da cui i ceti politici governativi non riescono a staccarsi – vengano recepiti rapidamente, minimizzando, neutralizzando e marginalizzando gli eventuali dissensi, e senza gli impacci di tutele costituzionali. Una conferma indiretta la dà lo stesso governo in una pubblicazione dell’Agenzia ICE, in cui si annuncia soddisfatti che «si sono cambiati persino la nostra Costituzione e il nostro sistema elettorale per assicurare stabilità e sveltire il nostro processo legislativo». Dopo aver elencato le riforme «pro-business» che si sono riuscite a fare (senza peraltro cambiare la Costituzione), si dichiara gongolanti, a commento di due grafici che mostrano l’impietoso confronto e andamento degli stipendi italiani rispetto a quelli di altri paesi europei, che «i costi del lavoro in Italia sono ben inferiori a quelli di altre economie comparabili, come la Germania e la Francia». Chiaramente il governo sente di dover rispondere più agli investitori che ai propri cittadini, i quali nel frattempo godono degli stipendi tra i più bassi delle grandi economie europee; se questi avranno obiezioni, è sua cura assicurare che eventuali proteste resteranno irrilevanti.
Esiste tuttavia una specifica dimensione europea nelle riforme costituzionale ed elettorale che va al di là della generica richiesta da parte di Matteo Renzi di “flessibilità” sui conti in cambio di “riforme”. In parte la si ammette nella stessa relazione al disegno di legge costituzionale, dove si dichiarano le ragioni della proposta:
Lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale; […] e l’esigenza di coniugare quest’ultima con le rinnovate esigenze di governo unitario della finanza pubblica connesse anche ad impegni internazionali: il complesso di questi fattori ha dato luogo ad interventi di revisione costituzionale rilevanti, ancorché circoscritti, che hanno da ultimo interessato gli articoli 81, 97, 117 e 119, della Carta, ma che non sono stati accompagnati da un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione europea, Stato e Autonomie territoriali, entro il quale si dipanano oggi le politiche pubbliche.
Viene detto in altri termini che si abolisce l’elezione diretta del Senato (che peraltro viene specializzato nel recepimento delle direttive europee, con il risultato che tale recepimento, essendo fatto da entrambe le camere, dà luogo a leggi superiori a quelle ordinarie), si rafforzano i poteri dell’esecutivo e si riducono di fatto i poteri delle autonomie locali per adattarsi a una governance e a regole europee criticate a parole. Al di là delle manfrine del presidente del Consiglio, la pressione a cautelare politiche e decisioni “europee”, esautorando l’espressione della sovranità popolare fino ad alterare le stesse procedure costituzionali, ha una storia lunga almeno un lustro, a partire dalla lettera della BCE del 2011 all’allora governo italiano, in cui un’istituzione europea formalmente indipendente dalla politica prescriveva misure squisitamente politiche e fortemente caratterizzate da una preciso senso politico, a prescindere dal programma di quel governo e dal mandato ricevuto dai suoi elettori. Una storia che è continuata con il calvario della Grecia e con le interferenze di Draghi in Portogallo.
Chi vede in queste pressioni dai centri della governance europea o nella stessa riforma costituzionale italiana un movimento verso un’unione politica o addirittura un’unione federale, che di necessità comporta un trasferimento (di parte) della sovranità dagli stati all’Europa, si sbaglia. A cambiare sono chiamati solamente gli Stati, cui tocca “decostituzionalizzarsi” per assicurare l’implementazione dei trattati o di politiche e decisioni prese altrove. Nessuna “costituzionalizzazione” è invece perseguita a livello europeo riguardo alla creazione di un demos, all’espressione della sovranità popolare, all’articolazione di una democrazia basata sulla pari dignità di due o più opzioni politiche alternative e sulla “normale” parlamentarizzazione del funzionamento della UE con un Parlamento europeo legiferante e un esecutivo eletto. La governance europea rimane dominata da approcci tecnocratici falsamente “apolitici” da un lato, e da approcci intergovernativi a egemonia dello stato più forte dall’altro.
Anzi, proprio gli ultimi anni hanno visto un rafforzamento di entrambi questi approcci e una chiara regressione in tema di governance, con l‘adozione del fiscal compact, del six-pack e del two-pack, e in seguito della dichiarazione UE-Turchia sulla migrazione, escludendo o scavalcando il Parlamento europeo, e con il disimpegno nei confronti di una progettualità di ampio respiro (si veda il Rapporto dei cinque presidenti del 2015, che ha suscitato delusioni e preoccupazioni proprio in ambito europeista, o la presa di distanza del presidente della Commissione europea Juncker, a suo tempo dipinto dai britannici come un pericoloso federalista, da ogni finalità di “Stati Uniti d’Europa”). Incapaci di staccarsi da paradigmi palesemente fallimentari e sempre più invisi ai cittadini, i dirigenti europei e nazionali possono solo assicurarsi l’adozione rapida e senza intoppi delle loro decisioni estromettendo i dissensi dal procedimento politico, magari appellandosi alla necessità di far fronte al pericolo “nazionalista e populista”. I loro obiettivi e quelli di JP Morgan coincidono.
Questo passaggio e le sue conseguenze sono stati ben colti da Stefano Rodotà, che di recente ha parlato, se pure a un altro riguardo, di «una vera e propria “decostituzionalizzazione”, con un ritorno al primato della dimensione economica, e quindi con un riconoscimento dei diritti solo quando essi si presentavano e si presentano come manifestazione della legge di mercato. In questo modo il riferimento alla democrazia assume un significato di ritorno al passato, diviene una mossa conservatrice. Disconnessa dai diritti, offre come in passato la sua legittimazione ad un potere personale o accentrato che abbia avuto la possibilità o l’accortezza di fondarsi su una procedura formale». Da qui, scrive Rodotà, la solidarietà dei governi europei a Erdogan dopo il tentato golpe, accompagnata da placida indifferenza verso lo strame dei diritti fondamentali fatto dallo stesso leader turco.
Da qui, aggiungiamo noi, evidenti involuzioni persino nell’interpretazione del senso di «un’unione sempre più stretta», quali il vacillare sui diritti di libera circolazione e di non discriminazione per i cittadini europei (si pensi all’accordo con l’allora premier britannico Cameron del febbraio 2016), e la rinuncia a colmare gli squilibri strutturali tra le varie regioni europee o a perseguire una convergenza dei sistemi di welfare verso l’alto, come almeno veniva declamato fino al periodo immediatamente antecedente all’allargamento del 2004, in favore invece della competitività e del social dumping all’interno stesso della UE (vedi la pubblicazione dell’Agenzia ICE menzionata sopra).
A partire dai suoi primi passi il processo di integrazione europea è andato avanti affermando la liberalizzazione dei mercati e al tempo stesso promettendo l’europeizzazione di diritti fino ad allora limitati all’ambito nazionale e quindi soggetti ai condizionamenti dei rapporti di forza tra gli stati: così i trattati di Parigi e di Roma hanno inaugurato il principio della libera circolazione dei lavoratori, l’Atto unico Europeo ha introdotto la Carta sociale europea, il Trattato di Maastricht ha istituzionalizzato la cittadinanza europea e quello di Lisbona la Carta dei diritti fondamentali. Era questo senso di progresso, ancorché piuttosto limitato in pratica, ad assicurare il consenso degli europeisti, compresi quei federalisti che con Altiero Spinelli avevano a suo tempo criticato la via dei trattati fra Stati in luogo dell’auspicato momento costituzionale, facendo mettere tra parentesi eventuali critiche a determinate politiche europee fino al raggiungimento di una compiuta democrazia europea. Purtroppo questi elementi erano inscritti in un quadro che non solo aveva la dimensione dei trattati e non del costituzionalismo democratico ma che era in realtà fondato sulla istituzionalizzazione del liberismo e del monetarismo come mai era avvenuto prima in una costruzione politica.
In questo quadro gli elementi di diritto risultavano variabili dipendenti e sostanzialmente revocabili. E infatti non si può ora non riconoscere che quella promessa di europeizzazione dei diritti non c’è più. Gli strappi “costituzionali” degli ultimi anni hanno mostrato che le priorità sono rivolte alla salvaguardia dell’assetto economico neo o ordoliberista e alla sua affermazione a livello nazionale ed europeo. Significativa è la triste parabola del PSE, dall’incapacità di opporsi al massacro della Grecia e degli altri paesi dell’Europa meridionale in occasione della crisi dei debiti sovrani, risultandone anzi corresponsabile, al sostegno dei trattati CETA e TTIP, fino al comunicato con cui la sua presidenza dichiara il suo appoggio al “sì” alla riforma costituzionale italiana con le stesse parole della brochure dell’Agenzia ICE, in nome della «stabilità politica» e dell’«efficienza della legiferazione», cui si attribuisce il valore di un «processo storico». L’ordine regni in Europa.
Chi invece non ha rinunciato a perseguire l’europeizzazione dei diritti, la creazione di uno spazio sociale e politico europeo, di una federazione europea, è consapevole che questo progetto ha origine, come le costituzioni dell’Europa meridionale, proprio nella lotta antifascista. Sa che occorre difendere le proprie prerogative di sovranità popolare, inclusa la rappresentanza equa dei cittadini, inclusa l’eleggibilità diretta dei propri rappresentanti, inclusa la «tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori», incluso anche «il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo», per poterle estendere a livello europeo e condividerle con altri, e impedire così che l’integrazione europea si traduca semplicemente in un ritorno a uno stato di sostanziale sudditanza.
È cosciente del fatto che un processo decisionale democratico è necessariamente qualcosa di molto complesso in un’Europa che altro non è che un’«unione di minoranze» (sono parole di Romano Prodi), che proprio i rapporti tra queste “minoranze” hanno contribuito alle conflittualità intraeuropee nel passato e nel presente, e reagisce quindi con fastidio a guasconate “maggioritariste” come pure a panegirici della “rapidità di decisioni”, che di fatto finisce in generale per scontentare proprio i più. La lotta per il cambiamento dei trattati e per la democratizzazione dell’Unione europea, condotta da un movimento come DIEM25 e da altri gruppi e personalità singole, non potrà che giovarsi della difesa, valorizzazione e ampliamento della democrazia a livello locale (non necessariamente e solo nazionale). Noi invitiamo a votare “no” e a farlo pensando all’Europa. Perché anche il “no” degli italiani contribuisca a un nuovo corso.
Pubblicato su cambiailmondo il 16 ottobre 2016.