di Sergio Cesaratto
Come molti mi sono addormentato venerdì 24 giugno a notte tarda con i “Brexin” in vantaggio, dunque con un sentimento un po’ mesto del “qui non si smuove nulla”, la strada sarà lunga. La mattina l’inaspettato ribaltamento seguito da un altro sentimento mesto, quello di separazione da un popolo per il quale tutti abbiamo grande rispetto e che è componente essenziale dell’idea di Europa che pur ci accomuna – lo dice un anti-europeista non certo di primo pelo. Il “no” è venuto delle classi popolari inglesi – il “dato di classe” del voto è incontrovertibile. L’immigrazione ha giocato un ruolo chiave (lì per immigrazione s’intende anche quella europea).
La questione immigrazione è componente importante anche per i sentimenti popolari nell’Europa continentale. Ovunque l’immigrazione è vista come minaccia. Nell’Europa del nord l’immigrato è visto come minaccia a ciò che si ha; nell’Europa del sud a ciò che si vorrebbe riavere. Su questo dovremmo essere lucidi: un problema con l’immigrazione c’è poiché essa è stata storicamente spesso utilizzata per abbassare i diritti delle classi popolari autoctone. Tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola di vedere nell’immigrazione la causa principale dei problemi. Questi problemi risiedono nelle politiche economiche, per ciò che ci riguarda in quelle europee. L’immigrazione diventa doppiamente strumentale per le élite dirigenti: strumento di aumento dell’esercito industriale di riserva e valvola di sfogo per le frustrazioni delle classi popolari che sono così distratte nell’identificazione corretta del vero avversario. E dobbiamo tener dritta la nostra identità umanitaria. È un crinale difficile, perché va chiarito che si è tutti vittime di un sistema economico sbagliato e che con politiche diverse i problemi sarebbero più facilmente affrontabili per tutti, salvando la nostra umanità. Si tratta dunque da un lato di rassicurare le classi popolari che l’apertura delle frontiere a qualsiasi condizione è una prospettiva inaccettabile, ma ribadire che dall’altro è un dovere prima per noi stessi e poi per gli altri popoli di non compiere l’errore di identificare negli immigrati l’origine del nostro disagio, ma di sentirci tutti vittime di un nemico comune. Dobbiamo convincerci e convincere che solo battendo le politiche economiche correnti possiamo veramente affrontare i nostri disagi e assolvere il dovere morale di aiutare gli altri popoli. Prendersela con gli immigrati non è solo immorale, ma anche controproducente. Dobbiamo essere nazionalisti e internazionalisti al medesimo tempo. È complicato, ma è la sola strada razionale e morale.
Ciò che accomuna gli strati popolari dagli Stati Uniti all’Europa è la rabbia di chi si sente attualmente umiliato dalle condizioni di lavoro, di reddito, di futuro a cui è culminata la progressiva distruzione del corpus di diritti sociali che è cominciata con Thatcher e Reagan nel 1979. Questo sentimento non è patrimonio solo degli strati più diseredati, ma va oltre, coinvolge strati di ceto medio che hanno visto scomparire le proprie ragionevoli certezze sul futuro proprio e dei propri figli. La diseguaglianza e l’insicurezza sociale hanno raggiunti livelli sfacciati. La sinistra non riesce a intercettare questi sentimenti: troppo cosmopolita, troppo elitaria. Sarebbe interessante un confronto fra l’elettorato di Sanders e quello di Trump (qualcuno l’avrà certamente fatto). La destra appare più pronta a raccogliere questo discontento. Non è solo questione di slogan più semplici e populisti, ma la questione è il cosmopolitismo: le destre sono nazionali, la sinistra non lo è più. Per non parlare di quando è anche liberista (per cui non è più il caso neppure di definirla sinistra, come nel caso dei socialisti europei). Se non diamo di nuovo una speranza alle nostre classi popolari (sottolineo le nostre), queste sono date in pasto alla destra. E da lì non può scaturire nessun riscatto perché da ultimo la destra fa il gioco del capitalismo scatenato: essa è solo uno strumento utile per fomentare la guerra fra i diseredati, autoctoni e non, nei fatti lasciando entrambi senza sbocchi politici e come bacino di forza lavoro a buon mercato per il capitalismo. La sinistra deve cercare una strada difficile fra l’imprescindibile salvaguardia dei propri principi di umanità e solidarietà e il tornare a essere vista come l’espressione politica della difesa dei diritti sociali dei ceti popolari. Si deve camminare su un ciglio difficile, ma attenzione, chiudendo gli occhi (pensando di salvare così la propria anima bella) si cade nel burrone e si lascia campo aperto a capitalismo scatenato e all’immiserimento di massa.
Certamente in Europa la guerra in seno al popolo è stata esacerbata dalle politiche europee (che nello specifico della Brexit hanno per esempio determinato una massiccia emigrazione di giovani europei verso Londra). Queste politiche, distruggendo lavoro e diritti sociali, hanno esasperato i sentimenti anti-immigrazione. Distruggendo risorse per aiuti allo sviluppo, e influendo negativamente almeno sulle economie del Medio Oriente (accanto a una sciagurata politica estera di alcuni paesi europei), hanno alimentato i flussi migratori. Certo, la bomba demografica africana, veramente apocalittica, non la disinnesca facilmente. Ma un’Europa che crescesse e desse sicurezza ai propri popoli, avrebbe anche le risorse e consenso per assicurare un’accoglienza sostenibile e massicci aiuti in loco.
Le politiche che hanno il loro architrave nell’euro sono la manifestazione, il braccio armato della distruzione dei diritti sociali (in cui includo il diritto al lavoro e al welfare). Da ultimo sono anche la distruzione del processo di unificazione europea, laddove a dei popoli venga data la possibilità di esprimersi su ciò che essa oggi significa. Nei primi commenti sulla Brexit, il leitmotiv è che ora l’Europa dovrà darsi una prospettiva politica. Dunque assumere di più della medesima medicina!
Abbiamo altrove argomentato che un’unione politica progressiva in Europa, con un governo federale dotato di un bilancio consistente e redistributivo fra regioni, è una realtà impensabile, semplicemente perché non ve ne sono i presupposti storico-politici. L’unica unione politica possibile è quella alla tedesca, che esautorerebbe completamente i residui di sovranità fiscale dagli Stati nazionali membri (si tratta di residui, naturalmente, poiché come tutti sappiamo non c’è sovranità fiscale senza sovranità monetaria). Questa è una prospettiva inaccettabile, persino per quello straccio di classe politica che ci governa. I tedeschi lo sanno, per cui ora in Europa si parla di superare la “stateless currency” (la moneta senza Stato) con “a money beyond the State”, una “moneta oltre lo Stato”, cioè di imbrigliare le nazioni dell’Unione monetaria in una rete ancora più fitta di accordi che consentano ai paesi di galleggiare, mentre si completa l’opera di smantellamento di ciò che rimane dei diritti sociali come parte della folle strategia della deflazione competitiva in un quadro europeo ordoliberista. Persino la Bonino pare essersi ora convinta che gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili, favorendo così soluzioni più modeste, con strutture federali (o confederali) minime: attenzione, è la prospettiva più pericolosa, quella dello smantellamento degli Stati nazionali sostituiti da strutture sovranazionali minime: è il coronamento del sogno liberista dello Stato minimo. È naturalmente una prospettiva che non ha futuro economico, come ben sappiamo come keynesiani.
Il pericolo è la resilienza delle popolazioni a tutto questo. L’accettazione di un progressivo immiserimento e caduta delle aspettative di vita sotto ogni senso. Se chiamate a esprimersi le popolazioni lo fanno però con la rabbia che cova, sapendo bene dov’è il nemico, come nel caso dell’oxi greco e ora della Brexit. Le risposte che si sono sentite dall’élite intellettuale snobbish e cosmopolita sono naturalmente disgustose nel loro dare del minus habens ai ceti popolari nazionali, accusati di piccineria ed egoismo. Anche le accuse di nazionalismo a chi invece, fra i ceti pensanti, comprende e condivide le ansie di queste masse sono nauseanti, basate sulla prevalenza di “sogni e utopie” sugli interessi di milioni di individui – questo sì davvero da minus habens – non capendo che loro, le anime belle e cosmopolite, sono figli e servi del liberalismo scatenato e trionfante. Che questo sia difficile da battere, anche per l’assenza di alternative dopo la sconfitta storica del socialismo reale è una fatto. Che lo si debba assecondare è un’altra. Dagli umori percepiti ascoltando la radio ieri mattina, la consapevolezza delle ragioni profonde dietro la Brexit è per fortuna molto diffusa, da lì sembrerebbe persino maggioritaria.
Nessuno addita invece il vero responsabile politico della Brexit e del profondo scontento nelle società europee: la Germania. Un’area economica che ha messo in comune le proprie monete ha bisogno di un leader. Molti conosceranno l’idea di leadership di Charles Kindleberger. È compito delle potenze leader, delle potenze imperiali o sub-imperiali quello di portare ordine e prosperità nel proprio dominio. Questo significa che la potenza leader deve impiegare tutte le leve monetarie e fiscali per sostenere la domanda globale (o regionale). La Germania rifiuta di assolvere questo ruolo determinando il fatto che anche l’Europa, che dovrebbe essere un leader mondiale, non lo svolga questo compito. Il mercantilismo tedesco è precisamente l’opposto di questa leadership: un modello che si basa sulla compressione di salari e domanda interna per affidarsi al keynesismo altrui. La Germania è il vero problema, il cancro dell’Europa e, di rimbalzo, dell’economia mondiale. La Germania lungi dall’assicurare ordine e prosperità per tutti, sta scientemente determinando il declino economico di paesi che, come il nostro, si erano tirati fuori da una decadenza secolare. Il problema tedesco va posto con forza, perché è quello chiave. La Germania è un problema geo-politico enorme: è pericolosa sia se lasciata da sola che se imbrigliata in strutture sovranazionali. Ma si deve esser fiduciosi nella ricerca di soluzioni di cooperazione economica e politica.
Il risultato della Brexit è certamente una nostra vittoria. Anche se non va scordato che è un’uscita a destra, in nome della deregulation liberista e di sentimenti anti-immigrazione, non di una chiara difesa dei diritti sociali ulteriormente smantellati da Cameron (sicché parte del Labour ha visto nell’UE una qualche protezione dall’ultra liberismo City-Thatcher-Blair-Cameron).
Vedremo quello che succede sul piano economico, ma avanzo la previsione che non succederà gran che. Non è un cataclisma, e perché lo dovrebbe essere? (A distanza di qualche mese non è infatti ancora successo molto). I problemi di un’Europa debole sono comunque altrove, così come quelli di un’economia mondiale fragile. L’assenza di maggiori sconquassi sarà un argomento a favore di chi ritiene una rottura dell’euro possibile. Naturalmente qui le cose sono molto più complicate, lo sconquasso iniziale assai più profondo come ripristinare i sistemi di pagamento nazionali; quello di medio periodo più lento a digerirsi, in particolare il contenzioso sui debiti ridenominati in valute nazionali. Qui andrebbe certamente preparati degli scenari con i giuristi. Altri aspetti, per esempio l’insieme della legislazione e normativa europea sui commerci e quant’altro, sono anche aspetti complicatissimi, ma il buon senso non potrà che prevalere – al di là delle assurde minacce che si stanno ora ascoltano nei confronti del Regno Unito (le dichiarazioni di Schäuble e Juncker su una trattativa dura con la Germania per ammonire altri paesi sono davvero inaccettabili). Certo che l’incertezza delle regole potrebbe avere un impatto significativo sull’economia reale. Un lavoro coi giuristi sarebbe qui necessario.
Credo che dovremmo anche pensare a quale società e quale Europa pensiamo per il dopo. L’Italia deve riflettere sulle proprie vicende a partire, almeno, dalle occasioni mancate del boom economico, quando gli interessi più meschini prevalsero sulle esigenze di modernizzazione sociale e tecnologica del paese. L’elevato conflitto che ne seguì non fece certo bene al paese. E tanto meno bene fece la risposta delle classi dirigenti di imbrigliare il conflitto col vincolo estero dei cambi fissi prima, e dell’euro dopo. Cedendo la sovranità monetaria si è inteso tarpare conflitto e democrazia. Il conflitto è il sale della democrazia, in paesi economicamente sovrani. Esso va tuttavia regolato, tanto più in un ipotetico frangente post-euro. Quale Europa è un problema che rimane complesso perché il problema tedesco è sempre lì, sia economico che geopolitico.
Sulla nostra azione politica, vedo vari aspetti: (a) mi sembra quasi giunto al limite la penetrazione di certe idee al ceto “pensante”. Chi si è voluto convincere si è convinto. Chi non ha capito non capirà più, ed è nostro avversario. Costoro non hanno capito che lo Stato nazionale pienamente sovrano è il terreno del conflitto sociale e della democrazia (e lasciamo da parte l’argomento che piccoli atti non si possono difendere nella globalizzazione, l’argomento più stupido e perciò diffusissimo nella brigata Kalispera). Ma forse sono, come al solito, pessimista: i commenti di molti giornalisti RAI (persino della Berlinguer!) cominciano ad avere ora toni diversi, meno europeisti a prescindere; (b) fra la gente, la diffusione di sentimenti anti-euro/peisti è molto cresciuta, ed è forse maggioritaria. C’è però ancora uno scarto fra quel poco di agitazione politica che si vede e la dimensione macro, quella per cui capisci che senza uno Stato con una moneta sovrana non puoi far quasi nulla. Molti additano l’esempio delle lotte in Francia. Non sembra però che quelle lotte si leghino a un sentimento di emancipazione nazionale della politica economica francese. Si ha timore di risultare lepenisti? Si rifà così l’errore di lasciare alla destra il tema centrale della sovranità economica. Dobbiamo lavorare di più perché l’identificazione del disagio sociale con la costruzione europea sia chiara a ceti popolari sempre più ampi. Sono stato sempre scettico sullo slogan “fuori dall’euro”. Esso scatena paura. E un referendum farebbe immediatamente crollare il mercato dei titoli pubblici (a meno di previsioni di una chiara vittoria del “remain”, previsioni che però dopo l’inaspettata Brexit sarebbero poco credibili). Quello che dobbiamo fare è indirizzare il malcontento verso l’Europa, facendo anche capire che si sbaglia a identificare la radice dei problemi negli immigrati (oltre che essere immorale). È l’Europa che ha fallito a dare occupazione e prosperità. Se lo sa fare lo faccia subito; se non lo fa significa che i suoi scopi sono altri.
Dobbiamo mettere al centro l’occupazione, dire chiaramente che le politiche per crearla ci sono. Serve una proposta di creazione immediata di almeno due milioni di posti di lavoro. Qui le proposte MMT sullo “Stato come datore di lavoro di ultima istanza” sono rilevanti. Dobbiamo sfidare il M5S a misurarsi su delle proposte. E anche la CGIL, che affida quello straccio di dibattito economico che coltiva a economiste/i non proprio alternativi.
Abbiamo dunque molto da studiare e molto da lavorare. Io credo che sia il tempo di cominciare a superare molte divisioni in piccoli gruppi separati, blog di più o meno successo, narcisismi personali e quant’altro, per imbastire un discorso economico unitario (su cui si potrebbe ottenere l’appoggio di una parte consistente dell’accademia) in alleanza con i giuristi con cui si è intessuto un rapporto sul tema referendario. Vanno a mio avviso messi tuttavia dei paletti verso forse politiche di dubbia affidabilità – mi domando cosa ci si può attendere da personaggi come Salvini, Meloni se non addirittura Alemanno. Non voglio erigere steccati ideologici o morali, però si deve essere chiari nel riconoscersi in una tradizione di giustizia sociale, onestà intellettuale, difesa dei valori costituzionali, coerenza politica, pulizia morale.
Pubblicato su facciamosinistra! il 18 ottobre 2016.