“Nel prossimo quinquennio voglio proseguire la riforma dell’Unione economica e monetaria per salvaguardare la stabilità della nostra moneta unica e aumentare, tra gli Stati membri che la condividono, la convergenza delle politiche economiche, di bilancio e del mercato del lavoro”. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker lo aveva promesso nel suo discorso al Parlamento di Strasburgo nel luglio 2014 prima di ottenere la fiducia dell’Aula. A oltre due anni da quella promessa alcuni passi avanti sono stati fatti, ma c’è ancora molto lavoro da fare, e ci sono ‘ingombranti’ Stati membri che remano contro.
Il principale ostacolo al raggiungimento di una vera Unione economica è monetaria è che l’Ue procede “a due velocità” in quanto divisa tra i Paesi con e senza la moneta unica. L’euro, dall’ingresso della Lituania nel “club” nel gennaio 2015, è attualmente condiviso da 19 Stati membri su 28 e oltre 330 milioni di cittadini. È la seconda valuta del mondo per importanza e rappresenta quasi un quarto delle riserve valutarie mondiali. Ma tra i stessi Paesi con la moneta unica non poche sono le differenze, basti pensare al tasso di disoccupazione che in alcuni Stati come la Grecia è a livelli record (23,4% quello generale e addirittura 47,7% quello giovanile), mentre in altri è ai minimi storici: in Germania è di appena il 4,2% che sale al 6,9 per i giovani. La crisi ha acuito le problematiche economiche con 16,3 milioni di disoccupati nella zona euro e molte persone esposte al rischio di esclusione sociale.
Nel giugno del 2015 cinque presidenti, quello del Parlamento europeo Martin Schulz, del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, della Commissione Jean-Claude Juncker, della Bce Mario Draghi e dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem hanno sottoscritto un documento dettagliato sulle tre fasi per per approfondire l’unione economica e monetaria entro e non oltre il 2025.
Nella prima fase denominata “approfondire facendo” e che va fino al giugno 2017, si punta fare il miglior uso degli strumenti esistenti per rilanciare la competitività e la convergenza strutturale, completare l’Unione finanziaria, attuare e mantenere politiche di bilancio responsabili rafforzando allo stesso tempo il controllo democratico. Tra le altre cose si raccomanda la creazione da parte di ciascuno Stato membro della zona euro di un organismo incaricato di monitorare i risultati e le politiche in materia di competitività, che valuti anche i progressi delle riforme. “Il report dei cinque presidenti è realistico ma non abbastanza ambizioso e nella prima parte avita qualsiasi intervento che tocchi i trattati”, ritiene Zsolt Darvas, senior fellow del think tank Bruegel. Per lo studioso “ci sono diverse buone idee”, ma il problema “sarà vedere come verranno applicate”. È utile a suo avviso ad esempio il network degli organismi nazionali sulla competitività, ma “se le loro decisioni saranno vincolanti si dovranno fissare dei target che però non sempre sono facili da individuare, come si potranno misurare numericamente l’efficacia delle riforme?”.
Ma è nella seconda fase, denominata “completare l’Unione economica e monetaria”, che dovrebbero essere concordate misure concrete di natura più ampia per completare l’architettura economica e istituzionale. Tra queste c’è l’istituzione di una presidenza stabile per l’Eurogruppo che possa disporre di una Tesoreria della zona Euro. Juncker, e non solo lui, ha più volte sottolineato la necessità di un vero e proprio ministro delle Finanze dell’Ue, o almeno dell’Eurozona, che possa amministrare efficacemente i fondi europei e dirigerli dove sono più necessari, nonché la rappresentanza unica della zona euro nelle istituzioni finanziarie come l’Fmi. Anche qui la concretizzazione dell’idea ci dirà quanto sarà efficace. “Se il ministro unico delle Finanze sarà solo un guardiano delle regole fiscali non sarebbe necessario, ma se avrà a disposizione un bilancio dell’Euozona, diverso da quello dell’Ue nel suo complesso, da poter utilizzare per scopi ben precisi sarebbe molto utile, ma al momento questo non è ancora chiaro”, afferma Darvas. Lo studioso si dice scettico però che un giorno si possa arrivare ad avere un ministro delle Finanze dell’Unione: “Riuscire a raggiungere un accordo per un ministro dell’Eurozona sarà già abbastanza difficile, per l’Unione intera direi che è impossibile”.
Ed è nella fase tre, da raggiungere entro e non oltre il 2025, che secondo il report si dovrebbe garantire finalmente un contesto stabile e possibilmente prospero per tutti gli Stati membri che condividono la moneta unica, un contesto che sia più attraente per quelli che dovranno unirsi al gruppo in futuro.
Un tassello fondamentale dell’Unione economica è l’Unione bancaria. “Quando venne la crisi, pose una pressione estrema sul nostro sistema e trovò le sue debolezze”, e “già allora sapevamo che una supervisione bancaria efficace, maggiore coordinamento economico e una unione fiscale erano necessaire, ma all’epoca “non siamo stati capaci di trovare la volontà politica per agire, la nostra integrazione era stata completata solo a metà”, ha ammesso Juncker parlando la scorsa settimana in occasione delle celebrazioni dei 20 anni del Think Tank Epc. Ma oggi grazie “al supervisore bancario unico, al meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie e al nuovo sistema di garanzia dei depositi, mattone dopo mattone, abbiamo ricostruito la stabilità nella zona euro e la nostra casa è più sicura”, ha aggiunto Juncker.
Spinti dalle dure conseguenze che la crisi ha avuto sugli istituti finanziari europei, e i conseguenti costosi salvataggi messi in atto dai Paesi membri, l’Ue è riuscita a dare uno slancio al processo dell’unione bancaria, ma fino a un certo punto. È stato istituito un meccanismo di sorveglianza unico degli istituti europei, affidato alla Bce, che con un organismo interno ma separato nelle funzioni dalla Banca centrale, guidato dalla francese Danièle Nouy, ha il potere di controllare circa 150 fra le più grandi banche europee. E si è trovato un accordo su un meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie per gestire in modo ordinato e controllato l’eventuale fallimento delle banche, senza che vi sia un impatto sulle finanze degli Stati. Se una banca va in fallimento i primi a pagarne le conseguenze saranno gli azionisti e se la vendita delle loro azioni non dovesse bastare si attingerà da un fondo europeo.
Ma c’è un punto su cui ancora non si riesce a raggiungere un’intesa, ovvero il sistema unico di garanzia dei depositi, contro cui si sta battendo la Germania. Sfidando Berlino la Commissione lo scorso novembre ha presentato la sua proposta che mira a tutelare i depositi dei correntisti fino a 100mila euro affiancando ai fondi nazionali un fondo comune europeo, ma il testo stenta ad essere approvato definitivamente. “La Germania ha paura che i soldi messi nel fondo da banche tedesche siano usate per salvare banche dei Paesi come Italia e Grecia che Berlino teme siano gestite in maniera meno rigorosa, e quindi maggiormente sottoposti al rischio di fallimento”, spiega Darvas secondo cui questo è un errore in quanto “le tutele della sorveglianza unica affidata alla Bce, e del fondo unico per la risoluzione delle banche già hanno ridotto di molto i rischi e un eventuale utilizzo dello schema di garanzia dei depositi è molto remoto”. In più per lo studioso “la proposta della Commissione è ragionevole e prevede una entrata in vigore molto graduale”, evitando così traumi e dando al sistema il tempo di stabilizzarsi ulteriormente. Anche qui il tempo ci dirà se si riuscirà a raggiungere un accordo che sia utile per l’Europa.