di Maurizio Sgroi
Se il problema fosse che il governo italiano è troppo ottimista sul futuro della nostra economia, non sarebbe un problema. L’ottimismo del governo, al contrario, è o dovrebbe essere un viatico per rilanciare gli animal spirit imprenditoriali che nel nostro paese sono fin troppo addomesticati. Il problema invece è un altro: l’ottimismo del governo rischia di rivelarsi disfunzionale rispetto agli obiettivi che lo stesso governo si propone. Questo spiega la tendenza vagamente dilatoria nel rispetto dei nostri obiettivi di bilancio, ad esempio relativamente agli obblighi europei, che rischiano di essere letti come un semplice costume nazionale. Il che giova poco alla fiducia.
Per questa ragione, mentre leggevo la lunga audizione del direttore generale di Bankitalia in Parlamento, dove si discuteva del DEF, il documento economico e finanziario del governo, non era tanto la circostanza – che pure la stampa ha rilanciato in grande spolvero – che le previsioni del governo sulla crescita fossero giudicate ottimistiche che mi preoccupava, quanto il contesto generale, che dalla lettura appare vagamente sgradevole.
Comincio da un prima osservazione che conferma una sensazione ormai consolidata: «Non vi è più evidenza – dice Signorini – che la disponibilità di credito sia un ostacolo rilevante per le scelte di investimento; il credito alle imprese non cresce essenzialmente a causa della debolezza della domanda». In realtà questa tendenza era osservabile già dal 2014, e il fatto che oggi sia una notizia ufficiale conferma che la radice dei problemi del paese è molto profonda. È interessante notare, ad esempio, che «l’andamento dei prestiti è migliore nelle imprese con più di 20 addetti e in quelle dei servizi; rimane negativo nel settore delle costruzioni». Così come la circostanza, che per anni ha alimentato i nostri dibattiti, che «prosegue la riduzione dei tassi di interesse sui nuovi prestiti e si è ormai quasi annullato il differenziale nel costo medio del credito alle imprese tra Italia e area dell’euro».
Quindi se l’offerta di credito non è più un problema (al netto almeno del fardello rappresentato dalle sofferenze bancarie), se i tassi sono ormai allineati alla media europea, allora è proprio nella costituzione psicologica del nostro tessuto produttivo che occorre ricercare la causa del problema. A dimostrazione di ciò, valga un’altra evidenza: «Nei tre mesi terminanti in agosto il credito al settore privato non finanziario ha ristagnato. Mentre crescono ancora i finanziamenti alle famiglie (1,4%) i prestiti alle società non finanziarie si sono contratti dell’1,2%». Il credito sta arrivando alle famiglie, quindi, ma non alle imprese. Non perché non ci sia, ma perché non lo vogliono. La conseguenza è che la domanda interna, che aveva spinto il PIL nel primo trimestre, ha stagnato nel secondo, compensandosi appena il calo degli investimenti in macchinari e attrezzature con un aumento nella spesa per i mezzi di trasporto. Gli italiani hanno comprato più automobili.
Ma questo andamento, squisitamente congiunturale, contrasta con quello tendenziale. «Dall’avvio della ripresa, nel 2014 gli investimenti sono stati meno dinamici sia rispetto agli altri paesi dell’area dell’euro, sia rispetto a quello che normalmente si osserva nelle fasi di uscita da una recessione», spiega Signorini. E questo principalmente perché gli imprenditori hanno scarsa fiducia sulle prospettive della domanda. Insomma, la congiuntura può anche essere positiva, ma il trend rimane avverso, vagamente depressivo.
Questa anomalia si osserva anche sul mercato del lavoro che, dice, «dà segnali nel complesso positivi». Nel 2015, «grazie ai provvedimenti di decontribuzione», l’occupazione è cresciuta più rapidamente del prodotto. L’andamento è proseguito nella prima parte del 2016, quando hanno iniziato ad emergere segnali di rallentamento «presumibilmente anche in connessione con il ridimensionamento della decontribuzione».
In pratica l’economia si rianima dopo uno stimolo, ma non riesce a riavviarsi. È proprio questa caratteristica che rischia di rendere disfunzionale l’ottimismo del governo. La logica spendo per far ripartire l’economia, insomma, non arriva alla radice del problema. Con l’aggravante che peggiora lo stato dei conti pubblici, già in sofferenza per il deprimersi della crescita.
Sorvolo sulle divergenze di vedute sulle previsioni del PIL, già ampiamente illustrate dalla stampa. Più interessante valutare le conseguenze delle politiche del governo. Nell’insieme, spiega Signorini, «le misure previste per il 2017 comportano un aumento dell’indebitamento netto di quasi mezzo punto percentuale del PIL rispetto al suo valore tendenziale». A fronte di questo aumento dovrebbero registrarsi aumenti di prodotto superiore, fino a 0,6 punti, la metà dei quali dovrebbero arrivare dal mancato aumento dell’IVA, e il resto dalle altre misure espansive. Stime che Bankitalia giudica con estrema prudenza. Inoltre «il governo ha chiesto al parlamento l’autorizzazione ad accrescere il disavanzo fino ad altri 0,4 punti» per finanziare le spese eccezionali, come quella per il terremoto. Ciò a fronte di una finanza pubblica che quest’anno ha vissuto su un crinale pericoloso, con, da un parte il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche in leggero miglioramento, così come il deficit, e, dall’altra, un peggioramento del disavanzo strutturale, previsto in aumento di mezzo punto rispetto al 2015. Ricordo che il disavanzo strutturale è una di quelle invenzioni che danno corpo al complesso strumentario dei vari fiscal compact europei.
Signorini spiega che la strana situazione per la quale a un deficit minore corrisponde un disavanzo strutturale maggiore dipende dalla migliore situazione congiunturale (ancora un volta) e dalla ulteriore diminuzione della spesa per interessi (0,2 punti di PIL). La finanza pubblica italiana, insomma, sta in precario equilibrio sostanzialmente per ragioni esogene. E questo dovrebbe preoccuparci assai più delle diverse previsioni di crescita. «Per il 2016, secondo le regole di bilancio europee, il nostro paese avrebbe dovuto realizzare un miglioramento del disavanzo strutturale pari a 0,5 punti percentuali del prodotto», ricorda il dg di Bankitalia. Le varie contrattazioni in sede europea hanno concesso alcuni decimali di flessibilità al governo, ma gli effetti sul rispetto delle regole europee non verrà valutato prima della primavera prossima. Abbiamo spuntato ancora qualche mese di tempo.
Sul versante del debito, il quadro è ancor più fosco. Ad aprile 2016 il DEF aveva ipotizzato un calo del debito sul PIL di 0,3 punti. Nella nota di aggiornamento recente, tale miglioramento viene rimandato all’anno prossimo, allungando la sequela di rinvii di riduzione del debito che i vari governi italiani hanno collezionato negli anni. Il che non aiuta certo la fiducia. Rimane il fatto che nel 2016 il debito/PIL, crescendo di altri 0,5 punti arriverà al 132,8%. È interessante osservare che 0,4 punti di questi 0,5 dipendono dalla minore crescita, che abbassa il denominatore. La parte restante dipende dai minori proventi da privatizzazioni. «Negli ultimi anni l’ammontare delle privatizzazioni effettivamente realizzato è stato quasi sempre inferiore ai programmi», nota il banchiere. Il problema dell’ottimismo, quando non arriva a generare fiducia, è che rischia di scontrarsi con il realismo delle cifre. E in tal senso divenire disfunzionale. Diventare non credibile.
Se guardiamo, ad esempio, le previsioni per il prossimo triennio, vediamo che a legislazione vigente il governo conta di raggiungere l’agognato pareggio nominale nel 2019, pure considerando il peggioramento del deficit netto in tutti e tre gli anni, solo in parte compensato dalla ulteriore riduzione della spesa per interessi (0,1 punti). Poi il debito dovrebbe scendere dall’anno prossimo e arrivare al 126% del PIL nel 2019.
Se guardiamo le stesse previsioni tenendo conto delle politiche programmate, Signorini sottolinea come «il governo ritenga che, data la situazione congiunturale, sia controproducente una correzione strutturale nel 2017». E poi che «il governo intende evitare l’inasprimento delle imposte indirette disposto dalla legge di stabilità per il 2015 e compensarne solo in parte gli effetti, con interventi di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale e di revisione della spesa». Lotta all’evasione e spending review come panacea delle correzioni. C’è tutta una letteratura economica nel nostro paese su questi temi. E il fatto che si scriva un altro capitolo di questo libro monumentale non giova all’entusiasmo.
Non è certo casuale la sottolineatura che «per il 2017 il governo annuncia ulteriori interventi in materia previdenziale e di sostegno degli investimenti pubblici e privati», così come la circostanza che «la Nota non riporta indicazioni specifiche relative ai principali ambiti di intervento della manovra di finanza pubblica per il prossimo triennio e agli effetti finanziari attesi in termini di entrata e di spesa». In compenso, lo abbiamo già visto, il governo ha chiesto al Parlamento di poter fare più deficit in caso di “eventi eccezionali”. In ogni caso, il governo prevede il pareggio per il 2019 e il calo del debito, riconoscendo tuttavia che quest’anno e il prossimo l’Italia non rispetterà la regola europea del debito, mentre dovrebbe accadere sempre per il 2019. Tutto sta a crederci.
Il problema del DEF, in fondo, è tutto qua. Tratta di previsioni che in gran parte si costruiscono sulla fiducia. E a novembre, quando l’UE dovrà dare una valutazione, vedremo se la Commissione UE ne avrà per il governo italiano. E soprattutto se ne avranno gli italiani, che in fondo sono gli artefici della loro crescita. Fra dire e fare (DeF) c’è di mezzo il DEF (documento di economia e finanza).
Pubblicato sul blog dell’autore il 12 ottobre 2016.