La vicenda della classificazione etnica degli studenti italiani nel Regno Unito ha suscitato un gran polverone di orgoglio nazionale ma come al solito non ha neppure sfiorato le vere questioni che il fatto solleva.
Gli inglesi hanno senz’altro torto a dividerci in italiani normali, napoletani e siciliani ma noi facciamo un grave torto a noi stessi se non riconosciamo che nella nostra comune italianità siamo molteplici e diversi. La nota dell’Ambasciata d’Italia a Londra ha un bel dire che l’Italia è un paese unificato dal 1861. Unificato non significa per fortuna uniformato o omogeneizzato. Se ancora oggi siamo fieri di distinguerci in regioni, città e perfino villaggi è perché il nostro sistema identitario è ricco e complesso. Da questa complessità scaturisce anche la nostra forza, la nostra originalità, la nostra resistenza al cambiamento che se da un lato è uno scoglio di conservazione, un ostacolo all’innovazione, dall’altro diventa anche un punto di riferimento in un mondo dove il tutto uguale scatena disorientamento e dispersione.
Semmai gli inglesi hanno sbagliato in approssimazione con le loro definizioni, perché l’italiano napoletano è una categoria riduttiva, si limita a Napoli e non riguarda la Campania. E anche l’italiano siciliano è troppo vago perché non tiene conto della differenza fra l’oriente e l’occidente dell’isola, solo per dirne una. Infatti più si avvicina la lente alla carta geografica, più ci si accorge che l’italiano è così vario e così imprendibile che un italiano vero non c’è. Siamo tutti dapprima qualcos’altro, e solo dopo italiani. È per questo che noi non ci estingueremo mai, perché siamo imprendibili, siamo italiani in tantissimi modi diversi e contaminiamo della nostra varietà anche gli altri, anche i nostri immigrati.
Basta parlare a uno dei tanti che oggi vivono nelle nostre città, emigrati o nati in Italia, e la prima cosa che salta all’orecchio è il suo accento. Non c’è pakistano o senegalese o bengalese o cinese asetticamente italiano. Anche loro sono milanesi o romani, veneti o napoletani. Prova flagrante che l’Italia non è unificata un bel niente. Lo straniero da noi non trova un modello unico da imitare per integrarsi, trova la nostra varietà e a quella si conforma.
Ma allora, davanti all’evidenza, perché non accettare anche noi la nostra diversità? Non in chiave separatista e leghista ma in uno spirito di riconoscimento e valorizzazione della nostra molteplicità che ci aiuti a mantenerla viva. Non si tratta qui di costruire riserve indiane, al contrario, ma di far respirare ai nostri localismi l’aria del largo, del vasto mondo. Si parla tanto oggi di radici. Quale popolo è più forte di noi che possiamo rivendicare radici nazionali e locali, confortati da un’identità modulabile fra lingua e dialetto? E si pensi a quale opportunità offriamo ai nostri migranti che con la nostra nazionalità ne guadagnano due!
Invece di scandalizzarci per come ci vedono gli altri dovremmo finalmente riformare lo stantio stato unitario che ci pretende tutti uguali e farne una vera federazione che usi la nostra diversità come una risorsa e riconosca a ogni componente della nostra nazione la sua dignità. Il carrarmato sabaudo che ha preteso di fare dell’Italia una Francia del sud, centralizzata e omogenea, ha clamorosamente fallito. Ma nessuno in Italia parla mai seriamente di federalismo e di governo locale e anche la riforma che si affaccia al voto del referendum clamorosamente perde un’altra occasione per farlo.