Ha fatto abbastanza discutere, e questo giornale vi ha dato il giusto risalto, la baruffa tutta polacca scatenata dalle dichiarazioni del leader politico polacco Jaroslaw Kaczynski (sprovvisto di incarichi formali, ma titolare di una leadership carismatica di fatto comparabile forse a quella dell’artefice di Singapore Lee Kuan-yew) sui problemi che comporterebbe un eventuale rinnovo del mandato del Presidente del Consiglio Europeo in carica, il polacco Donald Tusk. Il quale ha pensato bene di replicare al suo indimenticato sparring partner di Varsavia con un tweet (rigorosamente in polacco, ma prontamente tradotto e rilanciato) che sfidava al confronto.
La vicenda è indubbiamente molto colorita, e di grande interesse. Come tutte le storie interessanti, si presta a molteplici chiavi di lettura. La si potrebbe osservare attraverso lenti puramente polacche – di un Paese che, ai tempi in cui i gemelli Kaczynski erano entrambi attivamente impegnati in politica, non esitava a mettere allo scoperto le sue divisioni interne al punto di partecipare ai Consigli Europei con due rappresentanti anziché uno: il Presidente, Lech Kaczynski (poi prematuramente scomparso), e il Primo Ministro,..Donald Tusk.
Poi ci sarebbe il discorso del toto-nomine, specialità della casa non solo a Bruxelles ma in numerose capitali europee e no – specie una che conosciamo e amiamo, a sud delle Alpi: dove le chiacchiere su possibili rimpasti e avvicendamenti ai vertici e sottovertici circolano a ciclo continuo, ma certo l’evenienza che si renda vacante la poltrona del PEC (come è etichettato in gergo l’inquilino di maggior prestigio del palazzo Justus Lipsius) ha fornito a professionisti e dilettanti del gossip nuovo alimento per speculazioni e congetture come al solito stimolanti, più o meno fondate.
Un po’ per distinguersi un po’ perché le prospettive appena descritte hanno comunque ricevuto spazio più che esauriente (e in fondo il giardino di Adamo non puo’ non prestarsi ad un certo tipo di suggestioni), chi scrive suggerisce un’angolatura diversa.
Che parte da lontano, dalla mitologia greca, per accostarsi a riflessioni legate a filo doppio all’attualità.
Iniziamo con la mitologia: con la leggenda di Apelle, artista greco dell’isola di Kos il quale era solito esporre le sue opere in modo da poter trarre profitto dai commenti e dalle critiche dei passanti; una volta, un calzolaio aveva criticato il modo in cui in un quadro era stato rappresentato il sandalo di un personaggio, e il grande Apelle, al tempo considerato il maggior pittore mai esistito, aveva corretto quel particolare.
Il giorno dopo, però, il ciabattino, ringalluzzito del fatto che la sua critica fosse stata accolta, si era messo a criticare anche la rappresentazione del ginocchio di quel personaggio; a quel punto l’artista lo apostrofò con una frase divenuta poi proverbiale: ‘il calzolaio non vada oltre la suola’ (nella versione latina: ‘sutor ne ultra crepidam’).
Ma che c’entrano, diranno i pochi affezionati lettori di questa rubrica, Tusk e il suo antagonista polacco con le calzature di Apelle? C’entrano più di quanto si possa pensare. Perché la polemica ingaggiata dal gemello Kaczynski superstite col più alto tra i rappresentanti di Varsavia alle Istituzioni comunitarie conferma che l’ambizione di rendere più politica la guida delle Istituzioni medesime si scontra con obiezioni crescenti, e sempre più stridule, di capitali per le quali la voce di Bruxelles appare altrettanto fuori luogo come lo erano i commenti del ciabattino della favola greca. Basti pensare al coro di critiche levatesi in tempi non sospetti all’indirizzo del Presidente della Commissione Juncker, ovvero colui che si era proclamato, all’insediamento, il Presidente della Commissione più politica della storia, da parte dei Paesi del gruppo Visegrad (guarda caso, ancora la Polonia) che lo hanno accusato di portare la responsabilità dell’esito del referendum britannico. Oppure alla riluttanza del governo di Sofia a candidare come aspirante Segretario generale delle Nazioni Unite il Vice Presidente della Commissione Georgieva: riluttanza superata in capo a mille ripensamenti, esitazioni e manovre. Queste ultime, non sempre trasparenti: si erano peraltro già rese necessarie due anni prima, per vincere analoghe resistenze da parte di Sofia a proporre il nome della Georgieva per la squadra di Juncker. Ma l’idiosincrasia tra i governi nazionali e una presenza di loro rappresentanti a Bruxelles avvertita con fastidio quando non apertamente antagonistica non è certo un’esclusiva dei Paesi di più recente adesione. Anche a Londra, quando la prospettiva di un Brexit apparteneva ancora alla categoria degl’incubi (o dei sogni, a seconda dei punti di vista), le comunicazioni con Cathy Ashton erano limitate allo stretto indispensabile. E quanto all’Italia, forse converrebbe riconsiderare sotto una luce diversa l’indisponibilità opposta da Renzi a chi gli proponeva di nominare il suo predecessore a palazzo Chigi per la poltrona poi occupata da Tusk: come dimostrazione di lungimiranza, anziché di ripicca vendicativa.
E forse occorrerà, alla prossima tornata, rivedere criteri di nomine e ambizioni connesse. E riscoprire antiche saggezze. Della mitologia greca o di un popolare proverbio tedesco che, in tema di nomine comunitarie, offre una ricetta di provata affidabilità – come molte cose provenienti da quel Paese del resto: se hai un nonno mandalo in Europa (hast du einen Opa, schick ihn nach Europa). Anche perché è probabile che i nonni conoscano gl’insegnamenti dell’antica Grecia meglio dei nipoti…