di Stefano Di Bucchianico
Sarà per una sorta di deformazione professionale, ma capita a volte di cercare nelle azioni di un governo o di una qualsivoglia istituzione sovranazionale una linea guida che consenta di ricondurne le scelte ad un quadro teorico di riferimento. Nel caso dell’attuale governo Renzi, a più di due anni e mezzo dal suo insediamento qualche considerazione può portare ad associarne le linee guida a quella scuola che viene comunemente denominata neokeynesiana.
I suoi tratti distintivi sono sostanzialmente due. Uno riguarda il mercato del lavoro, nel quale si ammette la presenza di disoccupazione involontaria (sì, perché ci sono teorie in cui essa non è prevista), dovuta essenzialmente a rigidità nel mercato del lavoro. La seconda è l’ammissione di una qualche importanza per la politica fiscale di uno Stato, che può aiutare ad eliminare la disoccupazione, ma solo nel breve periodo. Nel lungo periodo le forze del mercato, basate sui concetti di produttività e parsimonia quali attori primari, sarebbero in grado di riportare il sistema a convergere verso il NAIRU (il tasso di disoccupazione ad inflazione stabile). Quest’ultimo è il tasso di disoccupazione a cui il sistema tende naturalmente, ed in corrispondenza del quale vi è inflazione costante. Il corollario subito segue: se nel lungo periodo si tenta di portare la disoccupazione sotto quel livello, magari con politiche di spesa pubblica espansive, l’unica conseguenza sarà quella di un tasso che tornerà al suo livello prestabilito (fissato da fattori quali la domanda e l’offerta di lavoro, le istituzioni del mercato del lavoro) ma con un tasso di inflazione crescente. Tanta spesa, poca impresa (anzi, col danno dell’inflazione galoppante).
In effetti il governo Renzi ha fissato nella sua agenda due riforme sopra tutte (insieme a quelle istituzionali, delle quali non parlerò): l’introduzione del “Jobs Act” per consentire maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, e il superamento della intransigenza nell’applicazione dell’austerità in sede europea. Ecco quindi l’analogia con le prescrizioni neokeynesiane: mercato del lavoro più “dinamico” per meglio allocare le risorse, e qualche indulgenza per gli sforamenti nel breve periodo dei vincoli alla spesa pubblica. Se questa ricostruzione fosse indovinata (e non ha pretesa di esserlo) però, si andrebbe incontro ad una dimenticanza e ad una incoerenza.
Una possibile conferma del fatto che questo è il quadro di analisi appropriato pare venire proprio da alcune misure inserite nel Jobs Act: se infatti il colpo decisivo all’articolo 18 e il demansionamento consentono di togliere potere contrattuale ai già assunti, la sorveglianza a distanza permette di ricorrere meno al ruolo disciplinante della disoccupazione sui lavoratori poco efficienti. Il senatore Pietro Ichino poi, vicino agli ambienti entusiasti e propositori del decreto, va combattendo da tempo la battaglia contro i malfunzionamenti dei Centri per l’impiego. Queste posizioni si rifanno rispettivamente alle teorie insider-outsider, a quelle dei salari di efficienza e a quelle dei costi di ricerca (job search), pietre angolari del pensiero neokeynesiano.
La dimenticanza sarebbe da condividere tra il governo Renzi e i mezzi di informazione nostrani. Essa riguarderebbe il fatto, probabilmente non secondario, che in quei modelli la rigidità del mercato del lavoro va curata con una maggiore flessibilità istituzionale che consenta al salario reale di abbassarsi quanto basta per eliminare la disoccupazione in eccesso rispetto a quella di equilibrio (la restante disoccupazione sarebbe infatti volontaria, quindi derivante dalle libere scelte dei lavoratori). Nel discorso giornaliero sui media quindi, tra le invettive contro la rigidità da curare con la flessibilità (in entrata ed in uscita) manca curiosamente proprio il passaggio riguardante il necessario abbassamento dei salari.
La supposta incoerenza invece riguarda le azioni in sede europea del ministro dell’economia Padoan. L’anno scorso il ministro si è scagliato contro il modo di calcolare i margini di manovra fiscale da parte della Commissione europea, con delle lettere di cui si è discusso abbastanza. Non entrerò in questo dibattito, già ampiamente riconosciuto come importante, anzi decisivo per gli assetti europei. Tali insofferenze si ripresentano con puntuale regolarità, come per esempio in questi giorni nel dibattito concernente la nota di aggiornato del DEF. La sostanza però resta quella per cui, se si crede al NAIRU come teoria utile a spiegare la disoccupazione, ci sarebbero due conseguenze molto pesanti. La prima riguarda i margini di spesa in deficit per calmierare la disoccupazione: i paesi più in difficoltà sono ancora più impossibilitati a utilizzare la leva fiscale per migliorare la situazione dell’economia. In seconda battuta, dato che il NAIRU è in pratica non molto più che una media mobile dei tassi effettivi di disoccupazione registrati negli anni precedenti, si ha che per esempio in Spagna una disoccupazione oltre il 20% sarebbe da considerare accettabile a meno di non voler ottenere (come succitato) zero risultati e una maggiore inflazione, danneggiando così ancor di più i lavoratori a reddito fisso.
Padoan ha perciò contestato i risultati ottenuti da queste statistiche, con le relative ricette da seguire. Di nuovo però, le proteste sono state piuttosto timide, e gli sforamenti sarebbero probabilmente comunque da considerare eccezioni, almeno se poi si guarda alla pervicacia con la quale in politica interna si perseguono gli obiettivi dati dai parametri. Questo perché la spesa pubblica nel lungo periodo deve cedere il passo alle riforme strutturali, allo sviluppo demografico e tecnologico quali motori della crescita. Queste ultime sono le determinanti fondamentali dei modelli ai quali gli studiosi neokeynesiani aderiscono pienamente nel lungo periodo, lasciando le critiche al breve.
Resta quindi il punto: se il NAIRU è un concetto contestabile in sede europea perché non permette sforamenti nei bilanci pubblici, perché la riforma del mercato del lavoro pare seguire alla lettera le indicazioni ricavabili dai modelli che lo prendono come colonna portante del loro impianto teorico? Detto in altre parole, la disoccupazione di equilibrio è determinata da fattori istituzionali che non consentono di ridurre i salari e raggiungere il livello ad inflazione stabile, come sembra credere il Padoan italiano? Oppure, come forse suggerisce il Padoan europeo, c’è effettivamente qualcosa di contorto nel concetto stesso di NAIRU, talmente contorto da impedire politiche di domanda che possano migliorare le condizioni dei mercati del lavoro dei paesi mediterranei europei? O forse ancora il Padoan europeo vorrebbe una mano nel breve periodo in termini di maggiore flessibilità nei vincoli europei (anche a fini elettorali, visto l’approssimarsi del voto sul referendum costituzionale), per poi assicurare in cambio nel lungo periodo una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro interno?
Questa sembra essere una incoerenza sulla quale potrebbe essere utile riflettere. Concludendo, se si accetta il NAIRU, proponendo di conseguenza il Jobs Act, allora i vincoli di spesa calcolati sul NAIRU stesso sono semplicemente da applicare senza colpo ferire, per quanto rigidi e austeri. Se al contrario si ritiene il calcolo dei margini di politica fiscale poco affidabile perché il sostrato teorico pare non solido, allora anche nel mercato del lavoro si possono cercare misure alternative per provare a ridurre la disoccupazione. Quale Padoan la spunterà?