di Gustavo Piga
Nel suo articolo di prima pagina sul Corriere della Sera Paolo Mieli ricorda come «non risulta – dai già citati sondaggi – l’esistenza di un elettore tedesco che abbia abbandonato la CDU perché non incoraggia politiche europee che consentano a Grecia, Italia e Francia (e a quel punto chissà quanti altri paesi) di rimettersi a spendere come facevano in passato». Ha assolutamente ragione.
Non risulta coincidere invece con la realtà dei fatti, misurati con dati, la conseguente tesi di una Europa virtuosa che evita di spendere, rappresentata principalmente dalla Germania, e che cresce per tale ragione, e di una Europa spendacciona, rappresentata principalmente dall’Italia, ferma e sclerotizzata per colpa di sprechi e corruzione.
Per dimostrarlo non faremo riferimento ai numeri prescelti dal Dott. Mieli per suffragare la sua tesi, perché sono quelli sbagliati. Nel periodo analizzato (il 2010-2015, abbiamo ricostruito, perché il Dott. Mieli non lo specifica) l’Italia «ha addirittura incrementato la spesa dal 49,9 al 50,7%», si legge. È evidente come i numeri citati non riguardino la spesa (un valore in euro e non una percentuale) ma il rapporto tra spesa pubblica totale e prodotto interno lordo del paese. Il valore (disponibile anche sul sito di Banca d’Italia nel Supplemento al Bollettino Statistico del giugno scorso) passa in realtà dal 49,9 al 50,5%. In Germania nello stesso periodo (stessa fonte) il rapporto scende addirittura dal 47,3% al 43,9%.
Ha dunque ragione Mieli? A naso non necessariamente: quel rapporto in Italia è certamente potuto salire a causa della discesa del denominatore, il PIL colpito dalla recessione, ed in Germania scendere a sua volta per la crescita dello stesso a causa dell’espansione tedesca. Dunque, solo un controllo dei dati della spesa in euro potrà sciogliere questo dubbio su chi ha speso di più tra Italia e Germania.
Nelle Government Finance Statistics stilate annualmente da Eurostat, il Dott. Mieli avrebbe potuto trovare le risposte ai suoi dubbi. E sono risposte che, sono certo, l’avrebbero portato a rivedere alcune sue conclusioni azzardate. La spesa pubblica totale in euro nel periodo indicato è cresciuta in ambedue i paesi, ma molto più velocemente in Germania: al tasso medio dello 0,65% annuo in Italia (da 800.494 miliardi di euro a 826.429) e dell’1,7% in Germania (da 1219.219 miliardi di euro a 1328.701). Tuttavia questo paragone ha poco senso se non teniamo conto dell’inflazione, che erode il valore degli euro e che nel periodo in questione è stata superiore in Italia: dell’1,8% medio contro l’1,44% in Germania. La spesa reale (il “numero di auto blu comprate” o di “ponti costruiti”) è dunque diminuita, in Italia, di circa l’1,15% annuo (0,65-1,8) contro un aumento tedesco dello 0,26% annuo (1,7-1,44).
La differenza tra Italia e Germania è particolarmente significativa nella spesa corrente – dove a fronte di un aumento reale tedesco addirittura del 2,5% l’Italia ha visto una diminuzione annuale dell’1,5% circa – negli stipendi pubblici – dove l’Italia ha visto un decremento del 3% a fronte di un incremento annuo dell’1% in Germania – e negli investimenti pubblici – che crescono di circa lo 0,5% annuo in terra tedesca e diminuiscono, tenetevi forte, di più del 6% annuo in Italia. Per chi ama di più i valori in euro, gli stipendi pubblici italiani sono scesi dal 2010 al 2015 da 172,5 miliardi a 161,7, mentre quelli tedeschi sono cresciuti da 203,5 a 230,7; gli investimenti fissi lordi pubblici in Italia sono scesi da 46,8 miliardi di euro a 37,2, mentre in Germania sono cresciuti da 59,6 miliardi di euro a 65,6.
Questi sono i fatti, i numeri. Mi direte: e come è possibile allora che nello stesso periodo il debito su PIL in Italia cresca, di 17 punti di PIL, e quello tedesco cali, di 10 punti di PIL? Per il semplice fatto che il PIL in Italia è crollato ed in Germania è aumentato; e parte di questa differenza di performance di crescita è dovuta, all’opposto di quanto sostenuto da Paolo Mieli, al fatto che la Germania ha aumentato le sue spese mentre l’Italia ha fatto austerità che ha distrutto occupazione e produzione.
Questo non vuol dire che non bisogna spendere bene: l’Italia sconta rispetto alla Germania una crescita inferiore anche in anni precedenti all’austerità a causa di un settore pubblico che aiuta meno, con la qualità della sua spesa, il suo settore privato ad operare con successo in un mondo globalizzato. Ma deve essere chiaro che questo divario si è ampiamente allargato a causa delle scriteriate politiche di austerità che la Germania ha imposto agli altri partner europei.
Concludendo, è utile rimarcare come i dati facciano emergere un’altra evidenza. È vero che la Germania ha speso di più e l’Italia di meno, ma è anche vero che questi aumenti sono minuscoli. Esiste con tutta probabilità dunque un elettore tedesco che ha abbandonato la CDU perché non ha incoraggiato politiche tedesche più espansive che avrebbero potuto generare maggiore innovazione, occupazione e ricchezza in Germania: infrastrutture di trasporto, TLC di nuova generazione, smantellamento del nucleare, tanto per fare qualche esempio. Politiche che avrebbero reso felici anche gli elettori italiani per il loro impatto positivo sulla nostra economia, che avrebbe esportato di più verso l’Europa del Nord. E che avrebbero dunque generato maggiore stabilità politica, prosperità, sicurezza.
Pubblicato sul blog dell’autore il 29 settembre 2016.