di Thomas Fazi
Il governo ha svelato le cifre della nuova manovra finanziaria (la nota di aggiornamento al documento economico e finanziario (DEF) 2016): nel 2017 il deficit scenderà al 2% (dal 2,6% di oggi), ma con una possibile estensione di un ulteriore 0,4% (nel qual caso scenderebbe al 2,4%). A qualcuno sarà forse capitato di leggere sui giornali l’esatto contrario, ossia che il deficit l’anno prossimo “salirà”. Come è possibile: sale o scende ‘sto deficit? La riposta è semplice: nei fatti il deficit scende, ma “sale” rispetto alla previsione (del tutto irrealistica) contenuta nel DEF dell’anno scorso: 1,8%. Tanto basta a molti commentatori per parlare di un “aumento” del deficit. La verità è che, come per il DEF dell’anno scorso, anche quest’anno siamo di fronte una manovra restrittiva che verrà senz’altro spacciata dal governo come una manovra espansiva. Ma i numeri parlano chiaro: una riduzione del deficit comporterà necessariamente più tagli e/o più tasse. Altro che flessibilità. Altro che battaglia all’austerity.
Basta guardare a come cambia il saldo primario. Fin qui, infatti, abbiamo parlato del saldo totale previsto, inclusivo della spesa per interessi, che però è destinata a scendere nei prossimi anni per effetto dei tassi di interesse ultra-bassi. Per capire realmente il segno di una manovra di bilancio – ossia per capire se la si possa definire espansiva o restrittiva – bisogna guardare al saldo primario, che calcola la differenza tra le entrate delle amministrazioni pubbliche e le loro spese, al netto degli interessi sul debito pubblico. È questo il dato che conta ai fini dell’impatto di una manovra sull’economia reale: se il saldo primario è in avanzo vuol dire che lo Stato toglie più soldi all’economia via tasse di quanti ve ne immetta via spesa (con effetti solitamente recessivi); per contro, se il saldo primario è in disavanzo, vuol dire che lo Stato immette più soldi nell’economia via spesa di quanti ne tolga via tasse (con effetti solitamente espansivi). Sì dirà: ma se quei soldi servono a pagare gli interessi sul debito e se il debito è detenuto in buona parte dai residenti, alla fine quei soldi tornano comunque indietro all’economia, no? Tecnicamente sì, ma togliere alla collettività (via tasse, che come si sa gravano soprattutto sui lavoratori dipendenti) per ripagare i possessori di titoli pubblici (nella maggior parte banche e cittadini ad alto reddito) rappresenta comunque una redistribuzione di ricchezza dal basso verso l’alto, recessiva per definizione (perché si toglie a chi ha un’alta propensione al consumo per dare a chi ha una bassa propensione al consumo).
Come si può immaginare, saldo primario e saldo totale non sempre sono dello stesso segno: se un paese registra una spesa per interessi molto alta, può capitare che il saldo primario sia in avanzo ma il saldo totale sia in disavanzo, per il semplice fatto che il saldo primario non riesce a coprire tutta la spesa per interessi, e dunque il paese in questione è costretto ad indebitarsi solo per coprire la fetta rimanente della spesa per interessi. È questo il caso dell’Italia, che in barba a tutte le accuse di essere un paese “spendaccione” e dalle finanze pubbliche “disastrate” registra un avanzo primario sin dal 1992 ed è da quasi vent’anni la nazione europea più virtuosa sul fronte del saldo primario.
Dovendo però far fronte ad una spesa annuale per interessi che dal 2000 ad oggi si è assestata intorno al 5% del PIL – pari all’incirca a 80 miliardi di l’anno –, ecco che uno dei saldi primari più alti del mondo si trasforma in deficit. Questo vuol dire che i 2000 miliardi di debito superati nel 2012 sono dunque in buona parte il risultato dell’accumulo degli interessi. Nulla a che fare con un’eccessiva spesa pubblica o un welfare troppo generoso, con buona pace dei fanatici antispesa. Semplicemente, a fronte di una spesa per interessi così onerosa, degli avanzi primari da record diventano un colossale trasferimento di ricchezza dalle tasche dei lavoratori e dei produttori verso quelle dei rentier, sia italiani che stranieri.
Tutto questo per dire che per capire veramente se il DEF di quest’anno servirà a sostenere l’economia o meno, il dato che conta è quello del saldo primario. Sono anni che in Italia ad ogni manovra di bilancio il saldo primario sale, in linea con gli obiettivi previsti dal fiscal compact. Ed è ovvio che sia così: al netto della spesa per interessi e della crescita del PIL (che negli ultimi anni sono rimasti sostanzialmente stabili), per far scendere il deficit totale bisogna far salire il saldo primario. Anche quest’anno sarà lo stesso, con un aumento dell’avanzo primario nel 2017 dall’1,5 all’1,7%, ergo la necessità di ulteriori tagli alla spesa pubblica e/o aumenti di tasse. E questo nonostante la spesa per interessi sia destinata a scendere di ben tre decimali: dal 4 al 3,7%. Alla faccia del quantitative easing che dovrebbe liberare “spazio fiscale”.
In conclusione, anche quest’anno il DEF sbugiarda la retorica “anti-austerity” di Renzi: un premier che in pubblico non risparmia critiche all’Europa, all’austerità («Fa più male che bene»), alla Germania («Non rispetta le regole sul surplus commerciale»), al fiscal compact («Non ha funzionato»), ma che nei fatti continua da anni a perseguire – con un po’ di flessibilità, ça va sans dire – la strada del “consolidamento fiscale”.