Le statistiche rivelano che l’83% degli italiani vogliono l’abolizione di Schengen e di fatto il ripristino delle frontiere. Nessun dato esprime forse più clamorosamente il naufragio dell’ideale europeo.
Serve a poco scandalizzarsi e accusare le nuove generazioni di aver perso di vista quale grande conquista furono le frontiere aperte fra paesi che un tempo si facevano la guerra proprio per queste. Inutile cercare di ricordare loro una cortina di ferro che non hanno mai conosciuto. Bisogna invece risalire alle ragioni che rendono oggi le frontiere di nuovo attraenti come ai tempi del “Piave mormorò”.
Di frontiere attorno ne abbiamo tante, anche quelle che non vediamo. Per gli italiani c’è una frontiera fra il nord e il sud del paese, fra città diverse, perfino fra piccoli paesi. Ci distinguiamo non necessariamente per discriminarci o dividerci ma perché ne abbiamo bisogno per esistere. La differenza ci definisce. In fin dei conti è lei che ci permette di stare insieme. Perché non sopporteremmo di essere tutti uguali. L’uguaglianza annienta l’individualità e a questo l’uomo occidentale si è sempre sottratto.
Alla fine però, pur nella differenza, pur con tutte le nostre note contraddizioni, noi italiani siamo una comunità coesa. Si può dire senza esitazione che fra gli italiani di ogni parte passa la corrente dell’intesa e del senso di appartenenza. Non è così fra paesi europei. Noi non sentiamo di avere nulla in comune con francesi o tedeschi, né loro con noi. L’appartenenza a un’unica comunità qui è solo teorica, imposta dall’esterno come valore astratto ma non vissuta da ogni individuo come propria esperienza personale. Questa è la cartina di tornasole che rivela l’ovvio: la mancanza di un’opinione pubblica europea, di un “demos” europeo. L’Europa non è popolo, non è un sentire comune ma un’unione tattica. Appena si indebolisce l’interesse alla coesistenza, l’ideale mostra le corde e si lacera. Ecco allora che torna il bisogno della frontiera.
Questo accade perché l’Unione europea ha sempre rinunciato a condividere due cose essenziali per la nascita di un “demos” europeo: scuola e lingua. È nella scuola che si formano le menti, che si sviluppa la narrazione di una comunità di destino. È attraverso la lingua che la narrazione sta in piedi, che ha un significato uguale per tutti. Di una lingua comune europea si è parlato fin troppo. Non se ne può imporre una artificiale, non c’è Esperanto che tenga, quel che è imposto senza senso viene sempre respinto. In più la lingua deve avere un’anima, non può essere un codice Morse. Il multilinguismo ha i suoi limiti, funziona solo fra alcuni paesi e resta una soluzione regionale. Ma forse oggi ce l’abbiamo la lingua comune che ci è sempre mancata: l’inglese. Ora che il Regno Unito non c’è più, possiamo prendergli la sua lingua per farla nostra.
Non sarà più la lingua di un paese ingombrante ma solo quella di 5 milioni di irlandesi che comunque in fondo la sentono in parte come una lingua straniera, come sarebbe per tutti noi. In fondo l’inglese ci è già familiare, era già entrato nel nostro vivere. Ma farlo nostro non significa solo impararlo, vuol dire davvero impossessarsene, crearne una nuova variante fra le tante che già esistono nel mondo. Un inglese europeo. Sarà più vero l’inglese parlato da 430 milioni di europei o quello parlato da 65 milioni di britannici? Forse facciamo pari. Se non altro potremo infine capirci fra di noi, avere una stampa comune, una televisione comune assieme a una scuola comune, con programmi equivalenti dove ognuno conserverà la propria identità culturale ma condividendola con gli altri e imparando assieme agli altri che cos’è l’Unione europea. Solo quando si svilupperà un comune sentire e uno spazio comune per discutere, scambiarsi idee e anche litigare saremo una vera comunità di popolo.
Ma i nostri governi non stanno certo andando in questa direzione. La cultura resta un terreno rigorosamente nazionale dove ogni commistione comunitaria è vista con sospetto. La patria è sempre pronta a tirare fuori il suo vecchio armamentario di nazionalismo spuntato per sventare quella paura dell’altro che invece solo la comunanza può davvero dissipare. Alla fine è questa ambivalenza che permette allo spirito della frontiera di sopravvivere nell’animo degli europei. La frontiera può scomparire provvisoriamente dalle carte ma resta nella nostra mente perché le nostre culture nazionali non si liberano dai suoi presupposti e ne conservano sempre il germe.