di Thomas Fazi
Realizzare un documentario non è mai facile, soprattutto in tempo di crisi: richiede soldi (tanti), tempo, impegno, passione. Ancora più difficile è realizzare un documentario che parli di questioni economiche: come trasporre in un linguaggio cinematografico questioni astratte come deficit, debito, PIL, ecc.? Realizzare un documentario che tratti di questioni economiche e sia al contempo autorevole e avvincente, poi, è praticamente impossibile. Eppure gli autori di PIIGS – Ovvero come imparai a preoccuparmi e a combattere l’austerity – i tre giovani film-maker italiani Adriano Cutraro, Federico Greco e Mirko Melchiorre – sono riusciti a fare esattamente questo. Il documentario, totalmente autofinanziato e frutto di cinque anni di lavoro, è un durissimo e lucidissimo atto d’accusa contro le politiche di austerità messe in campo in Europa in questi anni, e contro una narrazione della crisi che vorrebbe addossarne tutte le responsabilità ai paesi “scansafatiche” della periferia: i PIIGS, appunto, o maiali. Ma è anche una toccante storia di lotta umana e civile. Il film, infatti, intreccia la spiegazione delle dinamiche economiche e politiche all’origine della crisi – grazie a testimonial d’eccezione come Noam Chomsky, Yanis Varoufakis, Federico Rampini, Warren Mosler, Paul De Grauwe, Erri De Luca e tanti altri – alle vicende della Cooperativa sociale di Monterotondo che, a causa dei tagli alla spesa sociale, rischia di chiudere e mandare a casa 100 lavoratori, lasciando così senza assistenza 150 ragazzi disabili. Il documentario è praticamente ultimato: mancano solo gli ultimi soldi per chiudere la postproduzione e liberare i diritti di repertorio. Per questo gli autori hanno lanciato una campagna di crowdfunding, che è possibile sostenere cliccando qui. In occasione del lancio della campagna, abbiamo intervistato i registi.
Il trailer del documentario
https://vimeo.com/183239135
Come è nato il progetto PIIGS?
M: Possiamo dire che PIIGS nasce da una sorta di frustrazione interiore che avevamo. Dopo anni di letture di giornali di “controinformazione”, di lotte, di girotondi contro questo o quel politico di turno continuavamo a non avere delle risposte soddisfacenti per comprendere meglio la crisi economica che stavamo vivendo. I governi si alternavano, i politici ci rassicuravano e nelle loro dichiarazioni solitamente ascoltavamo parole come: sacrifici, lotta all’evasione, riforme strutturali. Nonostante queste ricette miracolose, nulla cambiava. Le persone comuni erano sempre più in difficolta e la crisi economica avanzava inarrestabile. A quel punto è bastato fare il passo successivo, spogliarci di tutte le nostre convinzioni e certezze per ripartire da zero. Cercare così di capire se qualcosa non ci era stato detto.
A: PIIGS intanto ha già fatto un piccolo miracolo, quello di mettere insieme tre registi, un evento raro. Ha unito tre percorsi artistici che condividevano le stesse preoccupazioni, gli stessi dubbi, le stesse incertezze. Percepivamo angoscia e scoramento attorno a noi a causa di questa crisi economica, ormai diventata stagnante. La politica non era in grado (e non lo è tutt’oggi) di fornire soluzioni concrete e il malcontento popolare stava generando delle pericolosissime derive xenofobe. Gli ultimi dati ISTAT ci dicono che solo in Italia 4,6 milioni di persone vivono in condizione di povertà assoluta, mentre Reuters certifica una disoccupazione giovanile al 44%, numeri terrificanti per chiunque abbia il minimo senso della realtà. Di fronte a tutto questo ci siamo chiesti cosa potesse fare il cinema, se in qualche modo potesse contribuire a creare attenzione attorno ad uno scenario così allarmante e interrogarsi sulle cause e soluzioni. Ecco, da queste riflessioni è nata l’idea di questo documentario.
Come vi siete avvicinati all’economia e in particolare all’economia “eterodossa”? Avete un background di studi economici o vi siete interessati alla materia come semplici cittadini. E se è così, come è successo?
F: Da semplici film-maker e da indignati cittadini. Per me l’innesco è stato la lettura de Il più grande crimine di Paolo Barnard (2011). Questo ha stimolato altri approfondimenti, in particolare mi ha spinto a risalire alle fonti del saggio e dunque a leggere (in rigoroso disordine) Randall Wray, Alain Parguez, la modern money theory (MMT), Keynes, Warren Mosler, Michael Hudson, Bill Mitchell, Josep Halevi, Stephanie Kelton. Alcuni di questi li ho incontrati personalmente negli anni successivi in diversi convegni organizzati in tutta Italia, a partire da quello di Rimini del 2012. La cosa interessante è che più mi addentravo nelle viscere della macroeconomia eterodossa e più mi rendevo conto di quanto quella cosiddetta ortodossa – neoliberista, friedmaniana, thatcheriana – avesse influenzato le scelte politiche dei nostri leader negli ultimi trent’anni.
Il film ha il pregio di mostrare come le decisioni macroeconomiche – nomi e numeri che spesso possono apparire astratti e lontani dalla vita di tutti i giorni: fiscal compact, 3%, Maastricht, ecc. – hanno un impatto concreto sulla nostra vita quotidiana. Il film segue le vicende della Cooperative sociale di Monterotondo, la cui esistenza è costantemente minacciata dai tagli di bilancio. Come siete entrati in contatti con questa realtà? Raccontateci un po’ la loro storia…
A: La scelta della cooperativa è frutto di una lunga ricerca, ma soprattutto di estenuanti confronti tra noi registi. Cercavamo una realtà locale che potesse avere elementi di universalità, piuttosto che raccontare varie storie in giro per l’Europa, questo perché ritenevamo che questa scelta ci avrebbe consentito di lavorare ad una struttura narrativa più sofisticata e interessante da un punto di vista cinematografico. La cooperativa “Il Pungiglione” l’abbiamo scoperta per caso, su suggerimento di un caro amico. Appena ci hanno illustrato la loro situazione abbiamo ritenuto che potessero esserci quegli elementi peculiari che da tempo stavamo ricercando e così ci siamo precipitati.
Nel corso del documentario a quali conclusioni siete giunti sulla crisi: è un problema di teorie sbagliate? Di interessi?
A: Ormai molti tra i più grandi economisti del mondo (Stiglitz, Krugman, De Grauwe, ecc.) ritengono deleterie le politiche economiche fin qui attuate e non si capisce perché continuino ad essere perpetrate. Chomsky propone l’ipotesi che probabilmente queste politiche non sono così dannose per chi le applica, se l’obiettivo è quello di indebolire i diritti dei lavoratori, distruggere il welfare state, rendere la politica subordinata alla finanza e minare tutte quelle conquiste sociali che sono costate decenni di lotta. Alla luce di ciò Chomsky, senza mezzi termini, punta il dito contro l’ideologia neoliberista, il vero demone che continua ad alimentare le storture e i paradossi di questa architettura europea.
M: È difficile dare una risposta, certo è che quando scopri che i politici che hanno architettato questa Unione europea sapevano ed erano al corrente che le teorie economiche sulle quali si basano i trattati erano sbagliate… rimane difficile pensare che non ci siano altri interessi.
Cosa vorreste ottenere con questo film?
F: Contribuire all’attualmente inesistente dibattito pubblico sul tema delle scelte macroeconomiche dell’Unione europea e generare dubbi su quelle scelte. Nel nostro documentario alterniamo le opinioni degli economisti e degli intellettuali internazionali a materiali di repertorio che mostrano come fuori dall’Europa il dibattito sia paradossalmente più dinamico. Negli Stati Uniti, programmi di entertainment come il Colbert Show su Comedy Central ospitano giovani accademici che hanno confutato senza tema di smentita le teorie su cui si basa l’austerità europea. La sensazione, dopo le ricerche e il montaggio del film, è che fuori da questa bolla che è l’UE sia addirittura scontato che l’austerità è ridicola. Dentro la bolla noi invece ne subiamo solo le tragiche conseguenze.
Che idea vi siete fatti sulle possibili vie d’uscita dalla crisi? Pensate che la strada da perseguire sia quella di una riforma delle attuali istituzioni dell’eurozona o piuttosto quella di un’uscita dalla moneta unica?
F: Non è nostro compito di registi offrire soluzioni, non siamo giornalisti, investigatori o economisti. Semmai stimoliamo domande e proponiamo dubbi, e cerchiamo di farlo con la narrazione di personaggi. La mia opinione personale invece, da cittadino, è che qualora l’unica strada possibile oggi sia l’uscita dall’eurozona, come mi pare di aver compreso in questi anni, la strada non sarà facile perché gestire la transizione e ciò che accadrà nei primi due anni successivi allo strappo sarebbe compito di una classe dirigente preparata e determinata. All’orizzonte non vedo nessuna delle due qualità.
Il vostro documentario rappresenta qualcosa di unico non solo nel panorama italiano ma in quello europeo, che non ha prodotto documentari significativi sulla crisi in questi anni. Il confronto con gli USA, dove solo sulla crisi finanziaria sono stati prodotti numerosi documentari di successo, è impietoso. Perché secondo voi questa carenza di documentari di denuncia sulla crisi in Europa?
A: A dire il vero me lo sono chiesto spesso anch’io. Probabilmente le questione economiche non suscitano particolare attrazione nei confronti dei registi e dell’industria cinematografica europea. Un’altra ipotesi è che il cinema europeo sia diventato troppo politically correct e abbia perso quella spinta anarchica in grado di irridere e denunciare il vero potere. Ti dico di più, la mia personale paura è che il cinema diventi via via sempre più innocuo e autoreferenziale, finendo per tramutarsi esclusivamente in strumento di vacue speculazioni narcisistiche.
M: Credo che alla base di tutto ci sia ignoranza da parte degli addetti ai lavori riguardo le tematiche economiche. Nel documentario Federico Rampini lo definisce analfabetismo economico. E non riguarda solo noi italiani. È un problema che ritroviamo in molti paesi Europei. E permettimi di dire che non è vero che non ci sono documentari di denuncia sulla crisi in Europa, mi viene da pensare a Debtocracy del 2011 sulla crisi in Grecia oppure Brussels Business che sviscerava il sistema delle lobby a Bruxelles. Il problema semmai e che si continua ad analizzare questa crisi come qualcosa che riguarda individualmente i singoli Stati, ci manca la visione d’insieme. E quindi si ragiona dando la colpa al singolo politico, come nel caso di Berlusconi in Italia, o alla classe dirigente, vedi la Grecia. E questo si riflette anche nella produzione cinematografica e televisiva: si producono infatti moltissimi film o documentari che parlano di malapolitica. Quanti reportage abbiamo visto sugli sprechi della politica, sulla casta, su mafia capitale? A questo poi, almeno in Italia, segue un altro grande problema che riguarda il sistema produttivo e distributivo cinematografico, che sta diventando sempre più innocuo. Chi ha più interesse e coraggio di produrre un film che mette in discussione il sistema vigente? Ma qui entreremmo in un discorso troppo complesso…
Avete appena lanciato una campagna di crowdfunding per ultimare il film. A che punto siete nella realizzazione del film e quanto vi serve per ultimarlo?
A: Come abbiamo scritto sulla nostra pagina ufficiale, ci manca davvero un ultimo passo. Ci servono 30.000 euro per chiudere la postproduzione e liberare i diritti di repertorio. Questo ci permetterebbe di uscire in sala con la miglior qualità possibile e consentirebbe al film una diffusione internazionale. Per questo confidiamo nella generosità dei lettori e in tutti coloro che credono sia arrivata l’ora di mettere al centro della discussione questi temi così complessi, ma così determinanti per la vita di ognuno di noi.
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